America al voto
Cresce l’astensione

«Se non avessero come candidata la Clinton, di cui più della metà degli elettori continua a non fidarsi, i democratici avrebbero già la vittoria in tasca». Questo titolo del Washington Post riassume perfettamente l’atmosfera che si respira in America a dieci settimane dalle presidenziali: Hillary avanti nei vari sondaggi di 6-8 punti nonostante nuove imbarazzanti rivelazioni sui rapporti tra la sua Fondazione e il Dipartimento di Stato, Trump a picco negli Stati-chiave e in difficoltà perfino in roccaforti repubblicane come lo Utah e la Georgia, sensazione sempre più diffusa che l’immobiliarista newyorchese, trionfatore delle primarie, sia del tutto impreparato e inadatto a fare il presidente degli Stati Uniti.

Incapace di controllare i suoi istinti, Trump continua a inanellare gaffe e dichiarazioni irresponsabili, come quando, due giorni fa, si è appellato al «popolo del secondo emendamento» (quello che consente a tutti gli americani di portare armi) perché «fermino» la Clinton, dando modo ai media di accusarlo addirittura di incitazione all’assassinio. I suoi comizi, che in genere si concludono al grido di «Hillary in galera», sono (con l’eccezione di quello di Detroit, in cui ha esposto uno schema abbastanza credibile di politica economica) sempre più al vetriolo: nell’ultimo, è arrivato ad accusare Obama e la stessa Clinton di essere «i fondatori dell’Isis».

Se questo linguaggio continua a piacere ai suoi seguaci più scatenati, che come i grillini, vogliono mandare a casa tutta la classe politica e rovesciare Washington come un guanto, sta invece provocando uno stillicidio di defezioni nel suo stesso partito. I primi sono stati cinquanta alti funzionari dell’amministrazione Bush, che hanno esortato gli americani a non mandare alla Casa Bianca un individuo impreparato e pericoloso. Ma negli ultimi giorni anche diversi parlamentari, capeggiati dalla senatrice Collins, hanno annunciato che non voteranno per lui e numerosi altri stanno vagliando lo stesso passo (specie se ritengono che, compiendolo, avrebbero maggiori probabilità di essere rieletti. Ma, nel timore di perdere a causa sua anche il controllo di Camera e Senato, c’è perfino chi studia un modo per bloccarlo in extremis, inducendolo a rinunciare alla investitura a favore del suo vice designato, il governatore dell’Indiana Mike Pence. «A Trump non piace perdere» scrive Matt Latimer sul New York Times «e certamente non gli piacerebbe passare alla storia come colui che, con il suo razzismo e il suo sessismo, ha portato il partito repubblicano alla peggiore disfatta della sua storia. Se si ritirasse adesso, il Great Old Party potrebbe ancora sperare di battere una Clinton inseguita da rancori e sospetti e lui diventerebbe il salvatore della patria». Probabilmente, siamo alla fantapolitica: ma se si tiene conto che le casse di Trump sono vuote, che la sua organizzazione sul territorio in vista dello scontro finale è paurosamente carente e che da tempo non compra più spazi in Tv, l’ipotesi non è del tutto campata in aria.

Sul fronte democratico, la Clinton continua a non convincere, avversata soprattutto dai maschi bianchi, ma se le cose continuano così finirà quasi certamente col farcela. Sempre dai sondaggi risulta che un bell’11% di elettori repubblicani potrebbero votare per lei come «il minore dei mali» e che sta guadagnando terreno tra i cosiddetti indipendenti. Vista la scelta «tra la padella e la brace», si teme anche un aumento delle astensioni, o una fuga verso i due candidati indipendenti, il libertario Gary Johnson (che sottrarrebbe voti a Trump) e la verde Jill Stein (che li porterebbe via a Hilary. Ma su una cosa più o meno tutti soni d’accordo: questa sarà la più brutta battaglia elettorale del dopoguerra.

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