Scuola-lavoro
tra pregi e difetti

L’attenzione sociale e mediatica sul dispositivo dell’Alternanza scuola lavoro (Asl), così come introdotto dalla legge 107/15, è altissima: se ne occupano i docenti e i dirigenti, così come il mondo del lavoro, delle imprese, delle istituzioni. Sacrosanto che se ne occupino gli studenti, i veri soggetti di questo dispositivo prezioso dal punto di vista formativo, ma anche per loro è fondamentale conoscerne ragioni, valenze e criticità. Molte sono le divergenze tra la norma originaria sull’Alternanza introdotta nel 2003 e quella ripresa nel 2015 dalla legge 107. La prima, infatti, prevedeva un percorso gestito in modo autonomo e sussidiario dalle singole scuole e dai partners aziendali sia rispetto alla quantità oraria, sia alle modalità didattiche e organizzative; unico vincolo era che non fosse un’esperienza separata dal normale curricolo scolastico, ma fosse con esso ben integrata. Una sfida insomma per cambiare modi di insegnare e per radicarli sempre più nel lavoro, nell’esperienza pratica.

La norma introdotta nel 2015, per contro, rende l’Alternanza un dispositivo obbligatorio per tutti gli studenti degli ultimi tre anni di tutti gli ordini di scuola secondaria di II grado, strettamente vincolato sia nei tempi che nelle modalità organizzative, quindi anche svincolato dal normale curricolo scolastico. È una divergenza pesante che, procedendo in una logica di neo-centralismo amministrativo e didattico, mal si coniuga con la eterogenea diffusione territoriale, nel nostro Paese, dei cluster industriali, della meccanica 4.0, dei poli manifatturieri, delle reti d’impresa, ecc. Non solo: inutile magnificare la quantità di esperienze di Alternanza, triplicate con l’introduzione della legge del 2015, se non si tengono in conto le sue modalità di realizzazione, se non si salvaguarda il principio formativo che la sostiene e che, in molti Paesi europei la fa essere il volano dell’occupazione giovanile (in Germania, ad esempio, ogni anno e ormai da decenni sono coinvolti in esperienze di alternanza oltre 500.000 giovani). Affermiamo, allora, qual è il prezioso punto di forza di questo dispositivo: il riconoscimento della valenza formativa del lavoro, dell’esperienza concreta che contemporaneamente utilizza, alimenta e modifica il sapere posseduto, che costringe ad interrogarsi sull’opportunità e l’efficacia delle scelte che si compiono, scelte che spesso appaiono automatiche ma in realtà intrise di sapere tacito. Accompagnare i nostri giovani in questo percorso di consapevolezza è quanto meno sfidante da un punto di vista educativo e culturale, di certo necessario, se non vogliamo rassegnarci ai numeri disastrosi della disoccupazione giovanile e al triste gioire del suo calo dal 40 al 37%. Ma raccogliere questa sfida ha due condizioni inaggirabili, che riguardano i due attori che organizzano l’Alternanza: il mondo del lavoro, in tutte le sue declinazioni (dalla multinazionale, all’impresa familiare, all’istituzione pubblica, ecc.) e il mondo della scuola, non solo negli anni di realizzazione dell’Alternanza, ma nell’interezza del suo percorso e delle sue scelte educative.

Il mondo del lavoro che vuole realizzare alternanza, infatti, lungi dalla tentazione di facili vantaggi, deve far proprio il valore formativo che esso stesso può realizzare, per migliorare se stesso, migliorando gli altri.

Dall’altro lato, la scuola deve maturare una consapevolezza autentica rispetto ad una indispensabile prospettiva didattica di «alternanza formativa» (precedente e fondativa rispetto a quella della scuola lavoro), capace di scardinare la rigidità della tradizionale teoria dei due tempi, culturalmente organizzata in un prima teorico e un dopo pratico, in una separatezza inadatta a quelle kantiane «mani per pensare», richiamo lontano ma folgorante, quando si tratta di favorire la sostanziale connessione tra il fare ed il pensare che circolarmente alimenta sempre, in ogni ambiente, in ogni lavoro e in qualsiasi apprendimento, l’agire umano.

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