Alleanze fragili
governi deboli

La campagna elettorale è lunga e chissà come finirà: l’unica cosa sicura è l’incertezza. Che genera preoccupazione un po’ dappertutto, a cominciare dai partner europei che tutto desiderano in questa fase di ripresa economica tranne che di ritrovarsi un’Italia di nuovo al centro dei problemi dell’Unione. Ma, volenti o nolenti, con la fragilità del sistema politico bisognerà fare i conti. Anche perché essa è accentuata da un sistema elettorale largamente proporzionalistico in cui ognuno «deve» guardare all’interesse di bottega.

La dimostrazione di ciò è proprio il centrodestra, l’unico che sia riuscito a mettere in piedi una vera e propria coalizione di partiti esistenti e che per questa ragione aspira a vincere le elezioni: il problema è che – nonostante il programma approvato di comune accordo – ognuno, cercando il proprio elettorato, non ha alcun problema a distaccarsi anche bruscamente dagli alleati.

Nelle ultime ore, dopo che Berlusconi è volato a Bruxelles a rassicurare i popolari europei che la coalizione da lui guidata si muoverà su binari ben chiari e secondo una linea di ragionevolezza europeistica di cui lui stesso si fa garante (anche in termini di scelta della persona cui affidare il compito di formare eventualmente un governo), Matteo Salvini ha sparato a zero contro l’Europa e contro i criteri di stabilità finanziaria (il famoso tre per cento del rapporto deficit-Pil), ha detto che «i numerini» di Bruxelles, se sono contro gli interessi italiani, per la Lega non contano nulla e infine ha presentato la candidatura di due autentiche star social del fronte no-euro. È chiaro che in questo c’è qualcosa di più del vecchio detto maoista: marciare divisi per colpire uniti. Quando le idee e le ambizioni sono davvero diverse, i riferimenti e le origini anche, l’elettorato viene inseguito con parole sempre più radicalizzate.

E il rischio è quello di ricadere in quel che è accaduto in tutta la storia della Seconda Repubblica: coalizioni, di una parte e dell’altra, capaci di vincere le elezioni ma non di superare la prova del governo. E poi c’è sempre l’ambiguità di fondo su cosa farebbero i partiti di centrodestra di fronte alla prospettiva di larga coalizione salva-Italia qualora nessuno raggiungesse la maggioranza parlamentare. Come si comporterebbe Berlusconi? E Salvini?

Se il centrodestra, con l’aria di successo che gli arride, vive questa fragilità, figuriamoci gli altri. Basta vedere lo schieramento che si è unito dietro a Piero Grasso per capire che le mille anime della sinistra riescono a stare insieme con grande fatica, e non solo perché la composizione delle liste è sempre un’operazione sanguinolenta, ma anche perché ci sono tanti personalismi e altrettante idee diverse di come comportarsi nella prossima legislatura.

Domanda numero uno: allearsi o no, dopo il voto, con il Pd di Matteo Renzi? Domanda numero due: dialogare o no con il M5S? Ardue questioni. Paradossalmente chi vive una situazione di maggiore pace interna è ora proprio il Pd di Matteo Renzi: una volta usciti tutti i nemici, chi è rimasto o segue il segretario o è disposto a collaborare con lui. Peccato che la mini-coalizione messa in piedi intorno al Pd sia poco più che un fatto simbolico: qui la fragilità è strutturale, è data dai numeri più che dalle idee.

Resta infine il mistero Cinque Stelle. Una coalizione, loro proprio non la cercano: sono certi di vincere da soli. E se non vinceranno, ma si imporranno comunque come primo partito, dicono che cercheranno i voti in Parlamento. Chi sarebbe disposto a dare una mano a Luigi Di Maio? E quali aiuti accettare? Se c’è un movimento eterogeneo è proprio quello fondato da Casaleggio senior e da Beppe Grillo. Il primo è scomparso, il secondo ora si defila e lascia il pallino in mano a Di Maio. Riuscirà il giovane candidato-premier a tenere a bada i suoi seguaci?

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