Aiutiamoli a casa loro
Ci pensa l’Africa

«Aiutiamoli a casa loro» è stato a lungo il titolo di un programma politico vuoto di contenuti, proposte e finanziamenti. È servito solo a contrastare sul piano ideologico l’immigrazione e col tempo è diventato uno slogan usurato e ipocrita. Contrariamente a quanto si crede, la Chiesa non parla solo di accoglienza e promuove – lo ha fatto anche Papa Francesco – il diritto delle persone a non dover emigrare. Ma questo diritto è sostanziato da migliaia di progetti che le Caritas, missioni e associazioni realizzano nel mondo garantendo ad africani, sudamericani e asiatici la possibilità di restare a vivere nella propria terra.

Intanto il nostro governo per la prima volta dal 2012 penalizza la cooperazione internazionale verso i Paesi poveri e le aree di crisi umanitaria, con un taglio alle agenzie delle Nazioni Unite di 32 milioni di euro e un blocco rispetto all’impegno garantito di 40 milioni di risorse per il settore. Non solo: l’Italia è il primo Paese d’Europa, e uno dei pochissimi al mondo, a tassare le rimesse verso l’estero degli immigrati residenti, con un’imposta dell’1,5%. Le rimesse sono anche una forma di contrasto all’immigrazione perché sostengono le famiglie negli Stati d’origine evitando che seguano la strada verso l’Europa e permettendo in molti casi di avviare piccole attività artigianali di sussistenza o addirittura generatrici di lavoro per persone al di fuori della parentela.

Ma in Africa è accaduto un fatto epocale, al quale i grandi media clamorosamente non hanno dato alcuna rilevanza: 54 Stati su 55 hanno siglato un trattato che crea il più grande spazio di libero commercio del mondo, dopo due anni di negoziati. Un groviglio di regole commerciali e di tariffe doganali ha reso finora il mercato inter-africano costoso, scomodo e vittima di lungaggini, con conseguenze negative anche sull’occupazione e sulla crescita economica del continente. E con il paradosso che è più agevole importare merci da Cina o Europa che da Paesi locali, dove gli stessi prodotti sono reperibili. Le economie africane oggi sono piccole e frammentate rispetto al resto del mondo. Attualmente gli scambi interni sono solo il 16% del commercio globale dell’Africa (condizionato ancora da «patti coloniali») rispetto al 67% dell’Unione Europea, il 47% dell’America e il 61% dell’Asia. Il trattato prevede la cancellazione di barriere doganali e dazi. Il commercio intra-africano aumenterà del 52,3% e dopo 10 anni dalla scomparsa dei dazi residui, arriverà a raddoppiare. Ciò permetterà anche di diversificare la creazione di posti di lavoro, dai servizi alla manifattura. È previsto che i consumatori (1,2 miliardi nella zona appena creata) pagheranno meno per prodotti e servizi, le aziende potranno assumere più personale e aumenteranno le entrate fiscali degli Stati.

L’Africa, da continente dipendenti dagli aiuti, potrà diventare una nuova frontiera degli investimenti. Certo il percorso è in salita, se si pensa ad esempio al grande deficit di infrastrutture, per le quali andranno investiti 90 miliardi di dollari. Inoltre servirà proteggere le economie più piccole evitando l’allargarsi delle disuguaglianze (ora oltre il 50% del Pil africano è prodotto solo da Egitto, Nigeria e Sudafrica). La prospettiva è dare risposte a un continente che nel 2050 avrà 2,5 miliardi di abitanti (il doppio di oggi) e disporrà del 30% delle risorse del pianeta. Il trattato ha anche un valore culturale, andando controcorrente rispetto alla guerra dei dazi Usa, alla Brexit e alle tensioni sovraniste che agitano l’Unione Europea. Come reagirà il mondo al trattato, resterà a guardare o metterà il bastone tra le ruote della corsa africana? Per ora non resta che ribaltare lo slogan: aiutiamoci a casa nostra.

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