L'Editoriale
Giovedì 01 Giugno 2017
Afghanistan l’ennesimo
fallimento occidentale
Ci sono voluti un kamikaze e più di 80 poveri morti per spezzare quella specie di censura che era entrata silenziosamente in vigore a proposito dell’Afghanistan. Invano l’Unicef ha segnalato che il 2016 è stato l’anno record per le vittime civili, quelle che qualcuno ancora si ostina a definire «collaterali». Nessuno sembra interessato al fatto che circa il 40 per cento del Paese, a sedici anni abbondanti dall’assalto internazionale contro il regime dei talebani, sia sotto il controllo di ribelli, insorti di varia origine e provenienza, milizie affiliate all’Isis, narcotrafficanti e puri e semplici tagliagole.
Pochissimi ricordano che nei lunghi anni della «liberazione» sono morte in Afghanistan 120 mila persone tra le quali circa 35 mila civili, quasi altrettanti soldati e poliziotti afghani e 3.500 soldati stranieri. Molti, invece, sono quelli che hanno accolto con un certo entusiasmo la «superbomba» fatta sganciare a metà aprile da Donald Trump, nella provincia di Nangarhar, sulle posizioni dei fedeli all’Isis: gesto accolto come il grido di guerra del cowboy alla riscossa mentre era l’urlo disperato di chi ha visto crescere, nei mesi, solo l’insicurezza dei cittadini e la spavalderia dei terroristi.
Insomma, è più che venuta l’ora di ammettere che l’Afghanistan è un altro dei fallimenti occidentali di questo inizio di terzo millennio. E l’attentato di ieri lo dimostra bene. Il kamikaze è riuscito a penetrare nel quartiere più controllato della capitale Kabul, quello delle ambasciate, portando con sé una quantità di esplosivo tale da provocare la più atroce strage di questi tempi in cui, peraltro, gli eccidi non sono mancati. Bisogna infatti ricordare, a proposito di Kabul e dei quartieri dove gli occidentali sono più numerosi, almeno altri due episodi: quello dell’8 marzo, quando un gruppo di killer dell’Isis travestiti da infermieri uccise più di 30 persone in un ospedale nei pressi dell’ambasciata Usa; e quello del 10 gennaio, quando due kamikaze talebani uccisero 36 persone in un attentato contro il Parlamento e l’Università americana.
Al problema della conquista e della pacificazione di un Paese che in epoca moderna ha già respinto e sconfitto gli imperialisti inglesi e russi, si è aggiunta col tempo un’ulteriore complicazione. L’avversario più temibile, in Afghanistan, sono senza dubbio i talebani, che possono contare su molte migliaia di combattenti e su un radicamento nel territorio che non ha uguali. Ma le disastrose iniziative prese dall’Occidente in Medio Oriente e la pessima scelta degli alleati (certificata anche dal recente viaggio di Trump) hanno fatto crescere anche in Afghanistan la mala pianta dell’Isis. Assai meno rigogliosa di quella talebana (si parla di poche centinaia di veri combattenti) ma dal punto di vista politico assai più significativa. Il che significa che le truppe della missione internazionale, passate dai 130 mila uomini del 2009-2010 ai 14 mila di adesso, devono disperdere le forze inseguendo due obiettivi. Uno, cioè i talebani, che sta pian piano riprendendo il controllo del Paese ed è quindi in grado di opprimere milioni di cittadini. L’altro, i miliziani dell’Isis, che politicamente pesa di più e sta molto a cuore alle cancellerie. La «superbomba» Usa, non a caso, è stata usata contro l’Isis e non contro i talebani.
Scusate, quindi, ma bisogna dirlo ad alta voce: in Afghanistan finirà male. Soprattutto per quella parte della popolazione, minoritaria magari ma ben rappresentata nelle città e nelle classi sociali più brillanti, che aveva creduto nella possibilità di uscire dal medioevo forzato che i leader ribelli scambiano per indipendenza e autonomia dallo straniero. Che loro abbiano quell’idea folle del mondo non evita però a noi, così evoluti e moderni, la patente di campioni delle imprese perdute.
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