Adozioni, il declino
di grandi storie

Secondo l’Unicef nel mondo ci sono 120 milioni di bambini senza famiglia. Altre fonti parlano invece di 2,7 milioni di minori (numero in aumento) potenzialmente adottabili perché residenti in Paesi asiatici e africani aperti all’adozione internazionale. Ma il sistema si è inceppato. L’argomento può apparire ameno, mentre l’Italia è alle prese con il cambio di governo e l’attenzione dell’opinione pubblica è tutta concentrata su ciò che accade nei palazzi romani. Si tratta però di cifre impressionanti, milioni di bambini che rischiano di crescere senza una famiglia, con le conseguenze psicologiche e sociali che ciò comporta.

Dal 2004 al 2016 le adozioni internazionali dei Paesi occidentali (Nord America ed Europa dell’Ovest, maggioritari nell’aprire le porte anche per ragioni economiche) sono crollate dell’80%: da 380 mila a meno di 290 mila. In Italia la recente caduta è stata del 55%: sul nostro territorio sono arrivati 4.130 bambini nel 2010, 1.439 l’anno scorso. Dopo gli Usa, restiamo però il secondo Stato al mondo per capacità di accoglienza. In Francia il calo supera il 76%, in Spagna il 90%.

Ma qual è il motivo di questo tracollo? Solo in parte è legato alla crisi economica che ha colpito anche le famiglie del ceto medio. Il costo di un’adozione internazionale varia dai 15 mila ai 30 mila euro (tra spese burocratiche, di viaggio, soggiorno e compensi agli operatori) e non sono previsti rimborsi ordinari da parte dello Stato: una grande ingiustizia, una beffa per chi affronta con amore e tenacia un percorso pieno di incognite e faticoso, dando una famiglia a chi ne è privo. In Italia il calo è anche legato al fatto che la Commissione adozioni internazionali non ha lavorato nel triennio 2014-2016 comportando la sospensione o il non rinnovo degli accordi bilaterali con gli Stati di provenienza dei minori, le associazioni intermediarie dell’adozione mai convocate e tenute all’oscuro delle pratiche.

Ma la ragione più profonda di questa débâcle mondiale è la chiusura, del tutto o in parte, delle porte da parte dei bacini dai quali provenivano i bambini. È il caso di Etiopia (dalla quale sono arrivati 10 mila minori in vent’anni), Russia, Polonia, Romania, Bulgaria, Bielorussia, Ucraina, Kenya, Congo, Uganda e Mali. In alcuni casi gli Stati hanno assunto atteggiamenti sovranisti, facendo prevalere l’orgoglio nazionale all’interesse dei bambini adottabili. Con ricadute dolorose per quelle famiglie alle quali era già stato abbinato il minore, che lo avevano conosciuto nel primo viaggio e poi la pratica è stata congelata in attesa di novità che non arrivano. Ci sono coppie che stanno aspettando i loro piccoli (nel frattempo divenuti ragazzini) da otto anni. Un’altra tendenza riguarda l’età dei (pochi) minori dati in adozione, che si è alzata. Inoltre si tratta spesso di bambini con problemi psicofisici o vittime di violenze. Ci vuole un cuore grande per accoglierli. In generale gli adottati si portano addosso una grande ferita, generata dall’essere stati abbandonati dai genitori naturali, una condizione vissuta con senso di colpa e che può non rimarginarsi, nonostante l’affetto della nuova famiglia. L’adozione non è facile, non è un gesto sentimentalista ma l’esito di un percorso che mette alla prova i nuovi genitori, a rischio fallimento. Ma sono tutte grandi storie d’amore, dato e ricevuto dai minori che hanno bisogno di protezione.

Deve invece preoccupare il destino di quei piccoli che resteranno negli orfanatrofi, nonostante le tante famiglie disponibili ad adottarli. «Di recente – ha raccontato in un convegno Paola Crestani, presidente del Ciai (Centro italiano aiuti all’infanzia) – in Etiopia il direttore di un orfanatrofio mi ha detto candidamente che conta i bambini ogni mese perché non è sicuro di quanti ne muoiano».

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