«Imprese e atenei, facciamo squadra per formare lavoratori su misura»

DELTA INDEX. Intervista al ministro dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, sul passaggio post-laurea nel mondo del lavoro: «Siamo autonomi, ma non isolati dal mondo. Intercettiamo i cambiamenti per modellare la preparazione sulle necessità in tempi brevi»

Il giorno della laurea ci si sente dei campioni, salvo scoprire il giorno dopo che la coppa vinta nello studio non sempre consente di giocarsi un ruolo da bomber nel campo del lavoro. Nelle aule si è respirato l’ambiente da serie A ma l’allenamento si è rivelato troppo teorico. Così il salto dall’ateneo alla fabbrica o all’ufficio ributta il giovane indietro nel tempo tra insicurezze e senso di inadeguatezza. Oppure, per chi è molto «skillato», le aziende appaiono solo delle predatrici affamate di risorse umane, poco attrattive e non in linea con la voglia d’innovazione e accelerazione del neo laureato specializzato. Un tema ricorrente nelle ricerche, come quella di AlmaLaurea che sintetizziamo nell’infografica e nel testo in fondo all’intervista. Un tema sul quale ci siamo confrontati con il ministro dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini.

In Italia viviamo la contraddizione di avere pochi laureati e tanti occupati, ma spesso le aziende faticano a incrociare le figure giuste da selezionare. Come si può facilitare la transizione degli studenti universitari verso il mondo del lavoro?

«Il mondo del lavoro è stato a lungo un “mondo a parte”, fatta salva qualche eccezione. Ora in Italia non si può neanche pensare all’Università come qualcosa di chiuso. Tutto è in movimento, e il nostro sforzo è intercettare i cambiamenti, a cominciare da quelle figure professionali che immaginiamo saranno necessarie tra qualche anno. L’Università deve capire e anticipare le richieste del mercato del lavoro. Per farlo si ascoltano le imprese, si vive in simbiosi con il territorio ma allo stesso tempo si cerca di modellare la preparazione sulle necessità. La duttilità dei nuovi corsi di laurea, la contaminazione tra discipline apparentemente lontane, saranno un cambiamento epocale. Così si può persino modificare “in corsa” la formazione».

Sta dicendo che bisogna saper fare tutto?

«Sto dicendo un’altra cosa. Che per affrontare il nuovo, bisogna avere competenze nuove. La specializzazione è ancora necessaria, anzi lo è più di prima. Solo non è una specializzazione rigida. Si modifica, si plasma, si adegua. È una specializzazione aperta, e quindi una vera specializzazione».

Ma è sufficiente intervenire sui piani di studio?

«Questa è la chiave che abbiamo scelto, che come noi stanno scegliendo i Paesi più avanzati dell’Unione europea: favorire una preparazione su misura. Ma abbiamo deciso di mettere in campo anche altro. Stiamo perfezionando l’orientamento, che deve saper indirizzare i talenti, per dare entusiasmo dove spesso c’era smarrimento. Grazie ai fondi del Pnrr, abbiamo incrementato i percorsi per favorire negli studenti scelte consapevoli. Poi abbiamo promosso l’Erasmus italiano, progetto che vede Bergamo come capofila».

Chi si laurea ha un forte bagaglio di conoscenze, ma poca esperienza pratica per attuarlo sul lavoro. Crede che il rapporto tra atenei e imprese vada rafforzato?

«Certamente, ed è proprio quello che stiamo incoraggiando in ogni modo. Università e imprese sono soggetti autonomi ma non isolati. Devono sentirsi parte di una rete, e i finanziamenti europei sono indirizzati proprio a favorire questo scambio reciproco. Fare squadra non è un’opzione, è una necessità. Ci sono corsi di laurea innovativi o master post-laurea che nascono proprio dalla collaborazione tra atenei e imprese. Penso, solo per fare un esempio, a corsi di Ingegneria navale che offrono agli studenti anche competenze di design, di arte, e che prendono vita proprio da un’esigenza del mercato nautico di cui il nostro Paese è leader mondiale. Abbiamo una tradizione di creatività, sappiamo unire innovazione e bellezza. Non possiamo, ma soprattutto non vogliamo, dilapidare questa risorsa».

Cosa possono fare le Università per consolidare questo dialogo?

«Le Università da tempo, nella loro autonomia, hanno scelto di collaborare tra di loro. Non è tempo di gelosie ma di unire le forze. L’Erasmus italiano dà un’opportunità in più nei piani di studio, consentendo di inserire discipline insegnate in Università diverse da quella a cui si è iscritti. Ma soprattutto stiamo lavorando a facilitare nuove intese con imprese ed Enti locali, che mettano in campo ogni possibilità di tirocinio e formazione».

Ma qual è la strategia per fornire agli studenti universitari opportunità di stage e tirocinio che non appaiano come adempimenti burocratici ma siano occasioni di crescita?

«Lei parla di “adempimenti burocratici”. Il rischio è di fermarsi dopo aver approvato un percorso, invece che dare contenuto a questo percorso. C’è scetticismo, come c’era per Caivano, dove abbiamo coinvolto tutto il sistema dell’alta formazione della Campania per portare in questo territorio divenuto simbolo del degrado formazione, cultura, speranza. Ma le cose, se si vogliono fare con determinazione, con progettualità, si possono fare e anche bene. Caivano è solo un esempio. L’ecosistema della conoscenza è il futuro che vogliamo realizzare adesso. Il rapporto tra Università e imprese deve essere così sinergico da ridurre al massimo il tempo che passa dalla laurea al lavoro. Penso a federazioni di università. A rapporti di collaborazione strutturali con i migliori atenei all’estero».

Crede che la formazione continua e il lifelong learning siano aspetti da valorizzare?

«Sì, la formazione non è un traguardo raggiunto e definitivo. Viviamo in anni di trasformazioni rapide e continue, dove il digitale è sempre più presente. E dove l’intelligenza artificiale, di cui tanto giustamente si parla, è già da tempo una realtà. La formazione non può prescindere dalle sollecitazioni continue di un mondo che non è mai quello del giorno prima».

Quali sono le prospettive future per l’istruzione universitaria nel contesto delle sfide economiche e tecnologiche attuali?

«Più che ragionare sulle prospettive future dell’Università, dobbiamo pensare che il futuro del Paese è l’Università. Senza alta formazione e ricerca scientifica non c’è progresso. Qui ci sono le risposte alle sfide del mondo attuale. E guardi, non è solo una questione di risorse. Il Pnrr ha dopato il sistema, ma sta a noi saper sfruttare al meglio questa opportunità. Alle Università e agli enti di ricerca dico: ci sono tante linee di finanziamento, non solo nazionali, ma soprattutto europee. Diamoci da fare per continuare a intercettarle. Puntiamo in alto, con ambizione, sapendo di potercela fare».

La ricerca sui neolaureati: disallineati con il mondo produttivo

Una recente ricerca di AlmaLaurea mette in luce il rapporto tra laureati e aziende in Italia. Sulle competenze emerge che il 57% dei neolaureati ritiene di possederle adeguate al mercato del lavoro, mentre solo il 37% delle aziende lo conferma. Le competenze più richieste dalle aziende, come problem solving, comunicazione e lavoro in team, risultano spesso carenti nei neolaureati. Sulla formazione il 65% dei neolaureati ritiene che l’università li abbia preparati per il mondo del lavoro, mentre solo il 42% delle aziende è d’accordo. Il 52% dei neolaureati trova un lavoro entro un anno, ma solo il 38% con un contratto indeterminato. Il 20% dei neolaureati è sottoccupato o in una posizione non congrua con il proprio titolo. Inoltre il 60% dei neolaureati non ha avuto contatti con aziende durante il percorso universitario e solo il 15% delle aziende collabora regolarmente con le università. Ci sono anche segnali positivi: cresce il numero di stage e tirocini offerti dalle aziende; aumenta la richiesta di figure ibride con competenze in diversi ambiti; le università stanno attivando sempre più percorsi formativi in collaborazione con le aziende.

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