Sono 17 le multinazionali italiane di rango mondiale e, tra queste, si conferma anche la «bergamasca» Italcementi. Solo Enel figura tra le cinque più grandi del proprio settore di attività e tutte, negli ultimi 10 anni, hanno al più tenuto la propria posizione in graduatoria senza riuscire a scalare la classifica. È lo scenario che emerge dall'indagine annuale sulle multinazionali redatta da R&S di Mediobanca, che prende in considerazione 324 multinazionali manifatturiere e 44 multinazionali delle telecomunicazioni e utilities, per un totale di quasi 28 milioni di dipendenti in tutto il mondo.
Il drappello delle italiane è saldamente guidato da Eni, con un fatturato 2008 di 108 miliardi, seguita da Enel e Fiat entrambe poco sotto ai 60 miliardi, ma la casa torinese con Chrysler si appresta a fare un salto da 34 miliardi di euro. Le dimensioni si dimezzano passando a Telecom (29,8 miliardi) e si riducono ancora con Finmeccanica (15 miliardi) e Riva (10 miliardi) per scendere nell'ordine dei 3-6 miliardi con Italcementi (5,8 miliardi), Luxottica, Prysmian, Pirelli, Cofide, Barilla, Marcegaglia, Parmalat, Buzzi, Indesit e Intek. Tenaris e Ferrero sono tra le multinazionali prese in considerazione da R&S, ma per sede sociale risultano tra le società del Benelux. Le multinazionali italiane sono piccole, osservano a R&S: con in media circa 36.500 dipendenti sono un terzo delle multinazionali tedesche, le più grandi a livello mondiale. Così tra le prime 10 del proprio settore compaiono solo Fiat (al nono posto ma destinata a salire con la ristrutturazione dei grandi gruppi auto americani), Eni in ottava posizione, Italcementi e Buzzi Unicem rispettivamente settima e ottava, Prysmian e Pirelli sesta e settima, Telecom Italia ottava ed Enel al quarto posto, destinata al terzo con la fusione di Edf e Suez che la precedono in classifica. Le multinazionali italiane negli ultimi 10 anni sono riuscite solo a tenere le posizioni nonostante siano state tra quelle a crescita più elevata: in termini di attivi materiali sono cresciute di quasi il 60%, alle spalle, in Europa, solo delle multinazionali del Benelux e della Gran Bretagna.
Nonostante lo sviluppo degli ultimi anni, nel raffronto mondiale il tasso di investimento delle multinazionali italiane rimane tra i più bassi, sia in termini di attività produttive per la crescita interna (pari nel 2007 all'8,1% dello stock di immobilizzazioni contro l'11,1% della Germania) sia a livello di crescita esterna (gli avviamenti pesano per il 32,8% sul patrimonio netto contro una media europea del 37,2% e una americana del 46,7%). Negli ultimi 10 anni le multinazionali italiane hanno rincorso il processo di globalizzazione, con una crescita delle vendite e degli occupati all'estero multipli di quelle europee. I progressi compiuti non sono bastati però a colmare il divario esistente, visto che l'export di 17 campioni nazionali rappresenta il 63,3% delle loro vendite, contro una media delle multinazionali europee del 78%, e i loro occupati all'estero sono il 57,2% del totale contro il 66,5% del campione europeo. L'analisi di R&S evidenzia inoltre per le multinazionali una crescita della produttività sistematicamente superiore a quella dei salari, dovuta in gran parte alla delocalizzazione, che ha avvantaggiato la quota del valore aggiunto destinata ai profitti. Una considerazione che vale anche per le multinazionali italiane.
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