Abbiamo incontrato Carlos Nobre, scienziato brasiliano premio Nobel per la Pace nel 2007 e tra gli autori del quarto rapporto dell’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico. È stato ospite a Bergamo all’evento organizzato dall’Orto Botanico di Bergamo e da Legambiente domenica 23 marzo. Nella Sala Viscontea di piazza Cittadella, in Città Alta, Nobre ha tenuto la conferenza «Cambiamenti climatici, Bergamo, Amazzonia: c’è un filo che ci unisce», evidenziando i rischi legati alla deforestazione dell’Amazzonia: ad esempio, con sei mesi di scarsità d’acqua ci potremmo trovare di fronte ad una transizione da foresta equatoriale a savana tropicale.
Carlos Nobre: «L’Amazzonia a un punto di non ritorno»
L’intervista al premio Nobel Carlos Nobre. Amazzonia, la doppia transizione politica, Cop 30 e il futuro che ci aspetta se il cambiamento climatico non verrà fermato
Con lui, abbiamo parlato dell’Amazzonia, della doppia transizione politica da Bolsonaro a Lula e da Biden a Trump e del futuro che ci aspetta qualora non riuscissimo a fermare il cambiamento climatico.
In quali condizioni si trova la foresta amazzonica?
L’Amazzonia è molto vicina a un punto di non ritorno. Nel 2025, la stagione secca sarà più lunga di cinque settimane rispetto a 45 anni fa. Un’enorme area della foresta, il 35%, ovvero 2,3 milioni di chilometri quadrati, è ormai molto degradata proprio a causa delle siccità sempre più frequenti. Queste ultime sono causate dal cambiamento climatico e avvengono in tutto il mondo, ma l’Amazzonia è colpita in modo particolarmente duro. Inoltre, dagli anni Settanta centinaia di migliaia di persone si sono trasferite nella foresta per diventare agricoltori e allevatori. La produzione di soia e l’allevamento di bestiame sono le principali cause della deforestazione: basti pensare che il 90% degli alberi tagliati è stato abbattuto per fare spazio agli animali».
Nel 2023 il Brasile ha vissuto una transizione politica: dall’amministrazione di Jair Bolsonaro è tornato a quella di Luiz Inácio Lula da Silva. Come sono cambiate da allora le politiche legate all’Amazzonia?
Il primo dato positivo è che nel 2024 abbiamo raggiunto il livello più basso di deforestazione dal 1975. Le precedenti amministrazioni Lula e Rousseff si erano distinte per l’attenzione a l’Amazzonia: tra il 2003 e il 2008, il presidente Lula aveva scelto come ministro dell’Ambiente Marina Silva, originaria proprio dell’Amazzonia e che promulgò numerose misure per ridurne la deforestazione. L’elezione di Bolsonaro nel 2018 ha completamente cambiato le carte in tavola: l’ex presidente è un convinto negazionista del cambiamento climatico, favorevole alla deforestazione dell’Amazzonia, che tra il 2018 e il 2022 è passata da 80mila a 140mila chilometri quadrati di alberi tagliati ogni anno. Bolsonaro supportava le attività illecite che stavano degradando l’area, come le miniere d’oro e il taglio della legna per la vendita, e non si curava dei diritti delle popolazioni indigene. Lula ha posto fine a tutto ciò, dimezzando i tassi di deforestazione tra il 2022 e il 2023 e riducendoli del 65% nel biennio 2023-2024.
La presidenza Lula si è dovuta confrontare con i grandi incendi che hanno colpito l’Amazzonia l’anno scorso. Come si sono verificati?
L’esplosione degli incendi boschivi nel 2024 è stata un grosso problema per la regione amazzonica. Al momento, sospettiamo che si sia trattato di operazioni criminali. Non possiamo dirlo per certo, perché gli studi sono ancora in corso, ma i risultati preliminari indicano che solo il 2% degli incendi di pende da cause naturali come i fulmini. Quando parliamo di origine dolosa non ci riferiamo ad allevatori e agricoltori che utilizzano il fuoco per le loro attività e ne perdono il controllo. Parliamo di attività criminali organizzate per la deforestazione illegale, per lasciare spazio ad altre attività illecite come quelle che Bolsonaro promuoveva. Ovviamente, la siccità rende più difficile domare il fuoco.
Nel 2024 si è verificato un cambiamento di senso opposto negli Stati Uniti, con il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump. Crede che l’elezione di Trump peggiorerà lo stato di salute dell’Amazzonia?
Sì, assolutamente sì. In modo indiretto: uscendo dall’Accordo di Parigi sul clima muovendo nuovi pozzi per lo sfruttamento delle risorse fossili, il neo-presidente causerà un aumento delle emissioni di gas serra e del riscaldamento globale, che inevitabilmente si ripercuoteranno su una foresta amazzonica già allo stremo. Gli Stati Uniti sono stati a lungo il primo produttore globale di emissioni inquinanti. Oggi sono il secondo dopo la Cina, ma parliamo comunque di un 12-13% di tutta la CO2 mondiale. La prima amministrazione Trump è stata segnata da un triennio di aumento delle emissioni tra il 2017 e il 2020, e temo che le cose non andranno diversamente da qui al 2028. Il problema è che, se non controlliamo molto rapidamente il cambiamento climatico, nei prossimi vent’anni, al massimo, il punto di non ritorno per l’Amazzonia verrà raggiunto.
Che cosa succederebbe se questo punto di non ritorno venisse raggiunto e superato?
Vediamo alcuni problemi già da ora, con l’allungamento delle stagioni secche in tutto il mondo. Se dovessimo arrivare a sei mesi di scarsità d’acqua in Amazzonia, ci troveremmo di fronte alla transizione dalla foresta equatoriale alla savana tropicale, e ciò cambierebbe l’intero ecosistema e la sua capacità di assorbire l’anidride carbonica. Ci sono ampie parti dell’Amazzonia meridionale che non sono più degli “abbattitori” di emissioni, perché oggi producono più CO2 di quella che ri-trasformano in ossigeno. Se non fermiamo il processo di “savanizzazione” dell’Amazzonia, l’anidride carbonica in atmosfera potrebbe aumentare di 200-250 miliardi di tonnellate. E ciò significherebbe rendere impossibile bloccare il riscaldamento globale alla soglia degli 1,5°C in più rispetto ai livelli pre-industriali.
Di recente, ha creato scalpore la notizia che una sezione di foresta amazzonica è stata distrutta per fare spazio a un’autostrada che collegherà la città di Belém, dove si svolgerà la Cop 30 sul clima a novembre, con i centri urbani vicini. Non è un’evidente contraddizione rispetto agli obiettivi delle conferenze sui cambiamenti climatici?
Certamente non è stata una buona idea da parte del governo dello Stato di Pará, dove sorge Belém. Il problema è logistico: alla Cop 30 arriveranno circa 50mila persone, e Belém non ha le strutture per ospitarle tutte: gli hotel della città hanno circa 3mila stanze in tutto. Quindi è stato deciso di creare dei grandi alberghi galleggianti, delle barche sul Rio delle Amazzoni. Ma il porto di Belém non è in grado di accoglierle: dovranno fermarsi a 15-20 chilometri di distanza, nelle città vicine. Per collegarle alla Cop è stata costruita una nuova strada, tagliando una quantità enorme di alberi. Quando, alla Cop 27 in Egitto, il presidente Lula ha proposto Belém come centro per la trentesima Conferenza delle Parti, lo avevo avvisato che sarebbe stata una pessima scelta. Ma capisco anche la necessità di far toccare con mano ai delegati l’importanza della foresta amazzonica e i livelli di degradazione che ha raggiunto. La realizzazione della strada resta una pessima idea, perché le alternative c’erano. In questi giorni mi trovo sul Lago di Como, a Bellagio, e mi sto muovendo in barca per visitare Como, Lecco e così via: una soluzione simile, con spostamenti tramite piccole navi sul Rio delle Amazzoni, avrebbe sicuramente avuto un impatto ambientale minore.
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