«La competitività delle imprese si raggiunge attraverso investimenti nelle tecnologie della transizione, ovvero rinnovabili ed efficienza energetica. Il piano della nuova Commissione europea, il Clean Industrial Deal, segue questa linea e offre agli Stati gli strumenti per garantire che la convenienza economica delle rinnovabili si possa cogliere da parte dei consumatori. Ora gli Stati nazionali devono tradurre le indicazioni in politiche, in particolare sulle tasse che gravano sul prezzo dell’elettricità: in Italia rendono la bolletta una delle più care d’Europa».
Efficienza e rinnovabili per abbattere i costi
dell’energia in Europa
Il nuovo piano della Commissione: la competitività delle imprese si raggiunge investendo nella transizione. L’esperta: «La dipendenza dai combustibili fossili importati e l’alta tassazione gli ostacoli da rimuovere»
Lo osserva Marta Lovisolo, consigliere politico senior per le politiche europee del «think tank» Ecco, il gruppo di esperti italiano per il clima. «Per garantire la competitività europea, è essenziale che il Piano d’azione per l’energia accessibile, che accompagna il Clean Industrial Deal, mantenga un approccio di lungo termine, evitando di affidarsi esclusivamente a misure di emergenza come gli aiuti di Stato per abbassare il costo», aggiunge Lovisolo. «Il Clean Industrial Deal rappresenta un’opportunità strategica per rafforzare la competitività dell’industria europea, offrendo certezza sugli investimenti e accelerando la transizione verso un’economia sostenibile. Tuttavia, è essenziale mantenere un quadro normativo stabile e trasparente per garantire la realizzazione degli obiettivi climatici ed economici dell’Europa».
Sono misure concrete? Quando le vedremo attuate?
«Il Clean Industrial Deal è un programma di lavoro per sostenere l’industria europea, una serie di linee guida, con obiettivi specifici già realizzabili nei prossimi dodici mesi. Il focus sui prezzi dell’energia, a nostro giudizio, è importante: dimostra la consapevolezza del loro costo come ostacolo alla competitività in Europa. Il Piano d’azione per l’energia accessibile contiene due principi molto pertinenti.
Il primo è la dichiarazione della connessione molto chiara tra la dipendenza europea dai combustibili fossili importati e i prezzi dell’energia fuori controllo. Noi lo sosteniamo da anni. La Commissione lo evidenzia in questo modo per la prima volta. L’altro elemento importante evidenziato è il problema dell’elevata tassazione dell’elettricità rispetto ai combustibili fossili come causa degli alti prezzi dell’energia in Europa. Su questo tema noi lavoriamo da moltissimo tempo con i nostri studi».
Che cosa avete dimostrato?
«In Italia il passaggio dai combustibili fossili all’elettricità non è così conveniente come dovrebbe essere. In Italia lo si può verificare a livello industriale, nella ricarica dell’auto elettrica, con la sostituzione della caldaia a gas con una pompa di calore. Lo si deve a un sistema di tassazione che appesantisce molto il prezzo dell’elettricità. È molto importante che la Commissione identifichi, come azione a breve termine per abbassare i prezzi delle bollette dell’elettricità, il taglio di una serie di componenti fiscali (accise e Iva, ndr) e parafiscali (oneri generali di sistema, ndr). Con una loro revisione, l’Italia potrebbe togliere subito e facilmente una causa dei prezzi alti».
La tassazione resta di competenza nazionale.
«Sì, la Commissione può offrire linee guida, mentre gli strumenti per agire sono nelle mani dei governi nazionali. In Italia la bolletta dell’elettricità è molto cara perché lo Stato ha deciso di tassarla molto. La Direttiva europea sulla tassazione dell’energia permette già di abbassarla a un livello molto basso. L’Italia non la segue, caricando di oneri parafiscali moltissimo l’elettricità e molto poco il gas, creando uno svantaggio competitivo. L’auto elettrica è molto più efficiente delle auto a motore endotermico: la ricarica resta più conveniente di un pieno di benzina, ma non tanto come dovrebbe. Le componenti fiscali e parafiscali hanno un peso: l’Unione europea ha messo il dito nella piaga. Gli Stati possono intervenire, soprattutto con una ridistribuzione degli oneri di sistema, da spostare dalla componente elettrica a quella dei combustibili fossili. Mantenere lo status quo giova alla rete di distribuzione e trasporto del gas e a conservare la dipendenza dai combustibili fossili».
«La nuova commissione di Ursula von der Leyen ha dichiarato in modo molto esplicito che non intende fare marcia indietro sugli obiettivi climatici del Green Deal. Anzi, intende continuare a scommettere su questa strada per la competitività europea: l’Unione continua a pensare che il futuro sia verde. Certo: l’ambizione della scorsa legislatura è un po’ ribassata. Lo si vede, per esempio, nel rinvio dell’emendamento alla legge sul clima per inserire l’obiettivo di riduzione delle emissioni al 2040: non c’è ancora una data, solo un rumor sulla discussione al Consiglio europeo di giugno».
I 100 miliardi di euro mobilitati dal Piano da dove vengono? Per la difesa ne sono stati annunciati 800: un divario sconfortante.
«Quegli 800 miliardi per la difesa vengono da meccanismi di mobilitazione di fondi nazionali e potenzialmente anche da flessibilità sul debito. I 100 miliardi a sostegno dell’industria sono fondi europei, anche se, secondo la nostra analisi preliminare, non sembrano nuovi ma riallocazioni di soldi già stanziati».
Oggi sembra che prevalgano le forze che guardano lo specchietto retrovisore, puntato sul vecchio modello di sviluppo basato sui combustibili fossili.
«Una parte del mondo industriale è ancorata al passato, sostenendo che, se le cose andavano meglio prima, dobbiamo continuare a farle come prima, non ammettendo che il mondo è cambiato. Allo stesso modo, però, come si vede, per esempio, nell’auto elettrica, la direzione è chiara. Anche le imprese europee stanno iniziando finalmente a investire in quel senso, anche se sono arrivate tardi e molte non sono preparate. Forse anche perché, nonostante il Green Deal, c’è sempre stata la speranza che saremmo tornati indietro. Per questo motivo, è importante confermare che si resta coerenti con le politiche annunciate. Il pacchetto Omnibus uscito con il Clean Industrial Deal, invece, è un chiaro cambio di direzione: non c’è solo semplificazione ma anche molta deregolamentazione. Ora l’industria che ha già investito per la rendicontazione di sostenibilità si trova penalizzata, mentre è premiato chi non si è ancora mosso. Qui c’è il nocciolo della questione: le linee guida politiche devono essere chiare e continuare ad andare nella stessa direzione».
Secondo l’economista Enrico Giovannini, c’è il rischio che l’Omnibus sia inteso dalle imprese come un «tana libera tutti».
«Per fortuna, non proprio tutto è stato eliminato. Le piccole e medie imprese, però, sono escluse dall’obbligo di rendicontazione della sostenibilità e in Italia prevalgono. Escluderle non solo rallenterà la decarbonizzazione ma priverà di informazioni cruciali: la rendicontazione, per esempio, alla Banca europea per gli investimenti fornirebbe più strumenti per le scelte da compiere in materia di finanziamenti».
Alle case automobilistiche si concederà più tempo, tre anni anziché uno, per soddisfare gli standard europei sulle emissioni ed evitare le multe.
«La scelta dell’Unione europea resta quella di puntare, innanzitutto, sull’auto elettrica: non c’è un’inversione di rotta. Il settore automobilistico ha organizzato un’enorme azione di lobbying, sostenendo che sarebbe stato strozzato da queste multe. Molta analisi indipendente osserva che in Europa il settore avrebbe raggiunto ugualmente i target: i primi dati sul 2025 indicano come le case automobilistiche siano più in linea di quanto sostengano.

Ma hanno una voce molto forte sia nei confronti dei governi sia a Bruxelles: la loro linea è prevalsa, così che la Commissione ha deciso la proroga. Noi osserviamo che allentare un po’ le multe può avere senso, visto il contesto complicato. Ma quanto non pagato in multe deve esse investito in decarbonizzazione, altrimenti tra un paio d’anni ci ritroviamo al punto di partenza».
Appunto. Le politiche di decarbonizzazione non dovrebbero essere esposte ai venti ondivaghi della politica, dove domina sempre più la polarizzazione. Gli Stati Uniti della seconda amministrazione Trump hanno dichiarato una vera e propria guerra alla sostenibilità.
«È una battaglia a più livelli. Noi versus loro, in Europa non ai livelli parossistici americani. Si sostiene che avremmo già fatto la nostra parte: ora tocca alla Cina, all’India. Senza riconoscere gli investimenti enormi e il vantaggio raggiunto dalla Cina nella decarbonizzazione. Certo: usano ancora molto più carbone di noi, ma l’espansione delle rinnovabili e dell’auto elettrica sono avvenute. Il protocollo di Kyoto, in vigore dal 2005, si basava sul principio delle comuni ma differenziate responsabilità, riconoscendo oneri solo ai Paesi industrializzati. L’Accordo di Parigi del 2015 coinvolge tutti i 195 Paesi firmatari, quindi anche i giganti emergenti come Cina e India. Oggi negli Stati Uniti si punta a scaricare le proprie responsabilità. Non solo. Se si tagliano i fondi per la ricerca scientifica, si lascia intendere che la crisi climatica non sia così grave come lo è in realtà. Eppure, le conseguenze dei cambiamenti climatici sono sotto gli occhi di tutti, dagli Stati Uniti all’Europa».
Le emissioni di CO2 si accumulano in atmosfera: stiamo subendo i cambiamenti climatici dovuti alle emissioni passate, mentre continuiamo a scaricare nell’atmosfera 40 gigatonnellate di CO2 all’anno.
«L’associazione tra l’uso dell’auto e un’inondazione è difficile da spiegare alla gente rispetto a quella tra i fumi di una fabbrica e il cancro. C’è un’opera formativa e informativa enorme da compiere. Se si tolgono fondi alla ricerca e alla divulgazione, come oggi negli Stati Uniti, il problema culturale si aggrava. In Europa è speculare l’attacco, da certa destra del Parlamento europeo, ai fondi alle Ong per occuparsi di cambiamento climatico. Per fortuna, in Europa la maggioranza del mondo politico riconosce che dobbiamo occuparci del cambiamento climatico e che occuparcene sia un’opportunità per rilanciare il continente e l’industria verso il futuro e non restare ancorati a un passato che oggi non funziona più, non solo dal punto di vista ambientale ma anche commerciale. La causa del declino dell’industria automobilistica europea non è il Green Deal, come è stato sostenuto da molti. I dati dimostrano che le nuove generazioni, rispetto alle precedenti, comprano molte meno auto. Le case automobilistiche europee, poi, continuano a investire su auto di fascia di lusso, care, mentre il successo di Volkswagen e Fiat era basato su quelle di fascia popolare. Insomma, anche se le cause sono altre, è molto più facile trovare un capro respiratorio. Oggi appare sempre più chiaro da molti studi che, se non ci convertiamo all’auto elettrica, perderemo ancora più posti di lavoro così che la filiera può morire, mentre investendo non solo in mobilità pulita ma anche collettiva eviteremo effetti ancora più devastanti per il tessuto produttivo e sociale».
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