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Transizione energetica: bersaglio della disinformazione

L’intervista a Simone Fontana di Facta: non si nega tanto il cambiamento climatico quanto l’efficacia delle alternative ai combustibili fossili

Le «fake news» circolano in ogni ambito, dalla politica alla salute.

Si registra, in particolare, un pericolosissimo ritorno della disinformazione sul cambiamento climatico, diffusa per interessi politici ed economici e impegnata ora anche a negare la possibilità di un’inversione di rotta che, a differenza di quanto si fa credere, è ancora realizzabile: non è troppo tardi per fermare il riscaldamento globale. Ne parliamo con Simone Fontana, giornalista e responsabile editoriale di Facta, una testata online che si occupa di «fact-checking», ossia di verificare le notizie e smontare quelle false. «La disinformazione sul clima è un po’ diversa rispetto agli altri tipi di disinformazione, perché si nutre di molte singole dinamiche. Ma, alla fine, tutte confluiscono nella stessa grande narrazione di chi vuole negare l’esistenza di una crisi provocata dall’essere umano», spiega Fontana. «Davanti al negazionismo, che resta un problema anche perché oggi assume nuove forme, crediamo che la strategia più utile sia far circolare informazioni verificate e far sì che le persone siano più attrezzate davanti a notizie false».

Come si sta trasformando la disinformazione sul cambiamento climatico?

«Ci troviamo in una nuova fase del contrasto alla disinformazione, che è sempre più tecnica e più difficile da riconoscere. Oggi è più difficile trovare chi nega apertamente che il clima stia cambiando, mentre si registra il “new denial”, il nuovo negazionismo: non si nega più quanto ormai è evidente, ma si punta a ostacolare la transizione energetica e le alternative ai combustibili fossili, mettendo in dubbio, per esempio, l’efficacia delle auto elettriche o delle fonti rinnovabili».

Chi sono i negazionisti?

«Negazionisti sono coloro che negano ciò che avviene con intento specifico e per interessi specifici, diffondendo bugie e disinformazione. Ben diversa è la situazione di chi crede a notizie false non avendo elementi per smontarle. Nel nostro lavoro stiamo imparando quanto sia fondamentale confrontarci con le persone con dubbi sul clima. Non vogliamo convincere nessuno, ma diffondere informazioni affidabili».

Quali sono gli interessi di chi nega consapevole di disinformare?

«Chi diffonde bugie con fini più o meno espliciti ha due tipi di interessi, politico ed economico. C’è chi si inventa e fa circolare bugie per guadagnare sui clic ricevuti sul proprio sito. Spesso il focus è su un tema specifico, su cui si costruisce un sistema di account social, influencer e network, generando l’impressione di un pensiero condiviso, quando, invece, è tutto costruito a tavolino».

Quanto ai disinformatori politici?

«Quelli sono la maggior parte e rappresentano i maggiori soggetti inquinatori del mondo, disinformando per ritorno di immagine e in supporto ad azioni industriali. Si muovono sia via social sia tramite personalità disposte a pubblicare editoriali e articoli su media compiacenti, foraggiati da ampio sostegno economico. Un progetto creato dal ricercatore Bill Posters e dall’artista e attivista Robert Del Naja, Eco-Bot.Net, ha rivelato che i sedici maggiori inquinatori al mondo nel solo 2021 hanno inserito su Facebook 1.700 post falsi sui cambiamenti climatici».

Perché è così facile credere alle «fake news»?

«Oggi ci sono molte più possibilità di informarsi rispetto a un tempo: è un bene ma significa anche che la disinformazione circola di più. Le generazioni meno giovani riconoscevano autorevolezza ai giornali perché sapevano che quanto vi leggevano aveva superato, prima della pubblicazione, una barriera di rigore e qualità. L’evoluzione dei media ha fatto sì che proliferino altri contesti, come alcuni siti che fingono di essere testate giornalistiche ma sono creati per disinformare. È un cambiamento radicale: non è così immediato distinguere vero e falso. Un secondo punto è che la disinformazione è sexy: oggi chi la fa sa dove puntare, quanto può essere gratificante fingere di mostrarsi i primi a sapere quanto gli altri non saprebbero o ci nasconderebbero, anche se in realtà è falso».

Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca porta al centro dell’attenzione la disinformazione climatica negli Stati Uniti.

«In questo momento istituti e agenzie autorevolissimi che si occupano di questioni climatiche sono sotto attacco. La Noaa, l’agenzia governativa per gli oceani, l’atmosfera e il clima, è tra le più a rischio. Conosciamo le posizioni di Trump sul clima, già espresse durante il primo mandato. Oggi la situazione è peggiore a causa dell’opera di Elon Musk che, presentata come contrasto agli sprechi della pubblica amministrazione, in realtà è una minaccia di censura che può avere effetti dirompenti sia sulla ricerca, sia sulla protezione ambientale. Se la scienza e le agenzie che studiano il clima sono meno libere, siamo meno liberi tutti».

Come ci si può difendere dalla disinformazione?

«L’ultimo report dell’Osservatorio europeo dei media digitali, che si occupa di fact-checking, rileva che oggi molta disinformazione arriva dall’intelligenza artificiale, inimmaginabile fino a pochi anni fa. Fondamentale è lo spirito critico: fare attenzione a dove vuole portarci un articolo, a come spinge su una certa visione del mondo, al linguaggio scelto. Importante è confrontare la stessa notizia su fonti diverse e autorevoli. In questo senso anche la media literacy (alfabetizzazione mediatica, ndr) è molto utile: con la piattaforma Dora, ad esempio, noi mostriamo come si verifica un testo con una ricerca Google, si controlla l’attendibilità di una foto, si accertano le fonti».

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