Emissioni e gradi: a Baku i limiti sono spariti

Intervista all’esperto Gianluca Lentini. Si parla della conferenza ONU, che è stata “molto deludente”, con risultati al di sotto delle aspettative. Sulla finanza climatica, invece, si è raggiunto solo un compromesso e prevale la spinta alla deregolazione. Su Trump dice che è imprevedibile: potrebbe cambiare idea per motivi economici.

«Molto deludente, in particolare per gli impegni climatici di mitigazione». Perentorio il giudizio dell’esperto Gianluca Lentini, geofisico specializzato in climatologia, sull’ultima Conferenza dell’Onu sul clima, la Cop29 a Baku, in Azerbaigian. «Sono scomparsi i riferimenti alla decarbonizzazione immediata – spiega – e al limite di aumento della temperatura media globale di 1,5 gradi e al massimo 2 rispetto all’era preindustriale. Scomparsi i riferimenti al picco di emissioni, non raggiunto nel 2024 come ci si aspettava, oltre il quale devono iniziare a scendere».

Questa Cop era focalizzata sul tema della finanza climatica.

Riguardo a questo, è andata relativamente bene, con un compromesso sui 300 miliardi all’anno per i Paesi più poveri: diventano 1.300 se si mettono insieme tutti gli attori, secondo la formulazione usata, pubblici e privati. Un compromesso che non soddisfa i Paesi più poveri: non è quanto chiedevano per poter attuare la transizione energetica. A mio giudizio, prevale il senso di delusione per la mancanza di impegni chiari sulle emissioni, a cominciare dai settori energetici, e sulle temperature. Un altro aspetto rilevante è l’intesa, conseguita finalmente dopo nove anni, sull’articolo 6 dell’Accordo di Parigi.

Di che cosa si tratta?

Del mercato dei crediti di carbonio, interessante dal punto di vista sia economico sia tecnologico. Permette a un Paese di compensare la differenza mancante della propria riduzione di emissioni, rispetto agli impegni assunti, attraverso risultati di mitigazione, appunto crediti di carbonio, prodotti da un altro Paese. L’intesa, accolta molto positivamente da vari Stati, ha deluso, però, l’Unione europea.

Perché?

L’Ue preferiva un accordo estremamente più stringente sul mercato delle quote di carbonio, lasciato, su volontà degli Stati Uniti ma non solo, molto libero, deregolato. L’Ue è più propensa ad accordi molto chiari, strutturati, monitorati. Altri Paesi, tra cui anche la Cina per ragioni diverse dagli Usa, li vogliono più deregolati. Anche la mancanza di riferimenti precisi su emissioni e temperature si può interpretare con il prevalere di questa logica, se mi si permette di questa ideologia, di deregulation. Vari Paesi, poi, avevano chiesto che l’intesa sull’articolo 6 includesse temi di giustizia climatica a favore delle popolazioni più fragili: non è avvenuto. In definitiva, condivido l’analisi compiuta dall’Italian Climate Network, anche riguardo all’intesa sull’articolo 6, su cui l’organizzazione che si occupa di cambiamenti climatici mantiene una certa neutralità, perché si dovrà vedere in che modo, più o meno virtuoso, sarà applicata. Ma c’è un problema di fondo.

Qual è?

La tendenza, ancora una volta, a rinviare. È stata creata unaRoad to Belém, la città brasiliana dove l’anno prossimo si terrà la Cop30. Ancora una volta si rimanda, all’insegna del vediamo come va, se ce la facciamo. Questo continuare a posticipare ha stancato, quando ormai le evidenze scientifiche sono talmente gigantesche. Significa assumere posizioni ideologiche, che non guardano ai fatti e neanche alla realtà tecnologica, in nome di un laissez-faire economico oppure di una chiusura ideologizzata.

Che conseguenze avrà il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca? Ha annunciato che riporterà gli Stati Uniti fuori dall’Accordo di Parigi del 2015 e forse addirittura dalla Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici del 1992.

Minacciò l’uscita dalla Convenzione già al tempo del primo mandato ma non vi riuscì. Il presidente degli Stati Uniti eletto è totalmente imprevedibile ed è anche noto per cambiare velocissimamente posizione su qualsiasi argomento. Osservo anche il paradosso di Elon Musk come uno dei principali consiglieri e membro del “cabinet”, il proprietario della società di auto elettriche più grande e prospera.

Per il futuro globale della transizione energetica dobbiamo confidare in Elon Musk?

La situazione è totalmente imprevedibile e per nulla rassicurante. Anche da un punto di vista climatico. È improbabile ma possibile che l’argomento economico a un certo punto convinca anche la nuova amministrazione degli Stati Uniti. L’investimento sulle rinnovabili, ormai da diversi anni, è più conveniente di quello sui combustibili fossili. Trump, anche se ha rilanciato lo slogan Drill, baby, drill (trivella, tesoro, trivella, ndr), magari davanti alla realtà economica cambierà, oppure continuerà a ripeterlo e poi non lo farà. Anche la Cina, che alla Cop di Baku non è stata una presenza particolarmente progressista e positiva, negli ultimi anni è stata convinta dall’aspetto economico, perché l’investimento nelle rinnovabili e nelle tecnologie connesse è più conveniente.

In Europa la riconfermata Ursula von der Leyen ha ribadito gli impegni del Green deal della scorsa legislatura, all’insegna ora del Clean deal industriale. Sulla carta gli obiettivi di decarbonizzazione dell’Unione europea rimangono. Del resto, una gran parte del mondo imprenditoriale si è già mossa in questa direzione, con investimenti cospicui.

Conosco bene il mondo imprenditoriale. Sono invitato a parlare di cambiamento climatico e transizione ecologica da Confindustria, Confartigianato, Ance. Sono stato anche a Bergamo Città Impresa a novembre. Ho sempre osservato, così come altri, una grande attenzione da parte di grandi e piccole imprese. Certo: c’è la chiara consapevolezza che la transizione ecologica non sarà a buon mercato all’inizio. Ed è corretto. Ma c’è altrettanta chiara consapevolezza che a medio e lungo termine convenga moltissimo. L’impressione è che grandi, medie e piccole imprese italiane siano pronte e desiderose di cambiare. E anche, in un certo senso, ambiziose. Non per sogni o voli pindarici: gli imprenditori sanno benissimo come si fa un bilancio economico e quanto sia difficile far quadrare un budget. Ma grandi chiusure non ci sono più. Ribadisco che la transizione ecologica non si fa dall’oggi al domani meravigliosamente e senza costi. Per questo motivo, è fondamentale e apprezzabile che anche alle Cop si parli tanto di soldi, perché il tema della finanza climatica è altrettanto essenziale di quello scientifico della riduzione delle emissioni climalteranti. L’Europa rimane il baluardo della transizione per due ragioni: l’ambizione dei propri obiettivi climatici e il rigore con il quale li persegue. A volte si pone “road maps” estremamente strutturate, anche fin troppo, che possono spaventare perché troppo complesse da seguire. L’Europa, poi, è composta da 27 Stati con 27 teste diverse, se non di più. E al momento la tendenza generale è un po’ a tornare indietro: la mia speranza è che avvenga a parole ma non nei fatti. Non lo chiamiamo più Green deal, perché altrimenti qualcuno si lamenta della presunta lobby verde, ma Clean deal, che va bene a tutti. Non sarebbe certamente la prima volta che in politica si cambia il nome ma si mantiene lo stesso contenuto. I partiti verdi, sia di sinistra sia liberali, alle ultime elezioni europee hanno perso. Un segnale chiaro, da accogliere da parte dell’Ue anche dal punto di vista della comunicazione.

Leonardo Becchetti ci ha dichiarato che buttarsi tra le braccia di chi nega il problema ha l’effetto confortante di rimuovere una situazione di timore e di angoscia. Ferruccio de Bortoli ha scritto che la crisi climatica ci annoia.

Le spiegazioni semplici attraggono di più, anche se sono sbagliate. Quando si parla della complessità delle scelte che abbiamo davanti e in realtà dovremmo già avere alle nostre spalle e continuiamo a rimbalzare nel futuro, è ovvio che qualcuno si spaventi e vada a cercare la soluzione più semplice, anche se è sbagliata. Questo spiega in parte il negazionismo, che in realtà non è così rilevante e per fortuna in Italia si è molto lenito. Il problema vero è che, a un certo punto, certe previsioni accadono. La Cop 29 dimostra che, a livello globale, stiamo attraversando un momento di forte arretramento delle scelte necessarie e dobbiamo prenderne atto. Le emissioni continueranno, le temperature aumenteranno ulteriormente. Il sistema climatico non aspetta le decisioni dei politici.

È sempre più possibile il raggiungimento di punti di rottura.

Certo. Non a caso all’ultima Cop, mentre sulla mitigazione c’è un deciso passo indietro, sull’adattamento si è insistito molto, con investimenti e la scelta di cento indicatori per perseguirlo.

L’adattamento, tra l’altro, spetta ai territori.

Parlare di limitare i danni, da un punto di vista comunicativo, è molto più facile: cambiamo questo sistema idrografico, questa costa, questo versante. È più facile di ammettere che è colpa nostra e dobbiamo mitigare le emissioni. L’ultima Cop sull’adattamento ha compiuto passi interessanti, pragmatici, accettabili.

Quest’anno, intanto, la temperatura media globale sarà la più alta di sempre e toccherà per la prima volta il grado e mezzo.

Il limite del grado e mezzo rispetto al livello preindustriale, cioè orientativamente al 1850, era nato alla Cop21 a Parigi con l’intento di mitigare le emissioni per non superarlo. Ora siamo già a più 1,1- più 1,2 . Entro dieci anni o forse già entro il 2030, se continuiamo così, gli 1,5 gradi in più saranno raggiunti stabilmente. Già la Cop21 di Parigi osservava di provare a contenere l’incremento di temperatura entro 1,5 gradi e, se non si riesce, sotto i 2. Ora siamo diretti verso più 2,6 gradi a fine secolo, un mondo completamente diverso.

Le ondate di calore, i lunghi periodi di siccità, le forti precipitazioni, i cicloni tropicali si moltiplicano, la copertura nevosa cala.

Non solo. Flora e fauna si ridistribuiscono, cambiano le correnti oceaniche, la copertura glaciale, in modo significativo, i movimenti di massa d’aria, le zone di alta e di bassa pressione. È un altro pianeta. Il messaggio corretto non è quello di salvare la terra, ma la vita così come la conosciamo, perché saranno avvantaggiate le specie che preferiscono temperature mediamente più alte e svantaggiate quelle che sono abituate alle più fredde. Noi ci adatteremo perché non abbiamo un intervallo di temperatura ristretto come alcuni animali. Ma un mondo con 2,6 gradi in più comporta uno sconvolgimento rilevantissimo di moltissimi aspetti della società, dell’economia, dell’abitare. Non significa l’estinzione della vita umana, per carità, ma un sostanziale cambiamento, diverso nelle diverse zone del pianeta. L’ultimo report degli scienziati dell’Ipcc, uscito nel 2023, parla anche dei cambiamenti, nel dettaglio, per il Mediterraneo e le Alpi. I report dell’Ipcc purtroppo hanno avuto ragione, anche se qualcuno ne parla male. Scenari e proiezioni si sono rivelati corretti: ci dovrebbe spaventare.

Anzi, si sono rivelati addirittura un po’ prudenti.

Sì, un po’ ottimistici rispetto a quello che abbiamo visto. Anche l’ultimo report si rivelerà corretto e magari un poco ottimistico. Bisogna guardare in faccia la realtà, senza prendere le posizioni ideologiche di chi afferma che non è vero niente, non sappiamo niente. Pressoché tutta la modellistica prodotta dagli anni ’70 del secolo scorso in poi si è rivelata corretta. Del resto, nel 2021 è stato conferito, insieme all’italiano Giorgio Parisi, il Nobel per la Fisica ai climatologi Syukuro Manabe e Klaus Hasselmann per la previsione affidabile del riscaldamento globale antropogenico.

Gianluca Lentini è geofisico specializzato in climatologia e ricercatore per il Consorzio Poliedra-Politecnico di Milano, dove si occupa di progetti di sviluppo sostenibile. Tra i suoi libri «Gaia. Il pianeta Terra e il clima che cambia» (2013), «Storie del clima. Dalla Mesopotamia agli Esopianeti» (2021), «La Groenlandia non era tutta verde» (2023), Premio Green Book 2024.

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