Cronaca / Bergamo Città
Domenica 16 Febbraio 2014
«Vedo troppa paura e pregiudizi
La povertà chiama in causa tutti»
Una scelta di coraggio. Minoritaria in partenza. «Una scelta per vincere la paura» che ci blinda nelle nostre case e ci paralizza nei nostri percorsi quotidiani. Don Fausto Resmini da oltre 30 anni ormai è la voce degli emarginati della stazione e del carcere.
Una scelta di coraggio. Minoritaria in partenza. «Una scelta per vincere la paura» che ci blinda nelle nostre case e ci paralizza nei nostri percorsi quotidiani. Don Fausto Resmini da oltre 30 anni ormai è la voce degli emarginati della stazione e del carcere.
Dal suo particolare osservatorio vede una Bergamo sempre più spaventata, sempre meno disposta a mettersi in gioco per cercare di cambiare. E poi vede l’altra Bergamo, quella degli invisibili, dei senza casa, dei detenuti, il cui orizzonte è sempre più ristretto, e il cui futuro si è progressivamente ridotto, fino a scomparire. Divorato, quel futuro, «da un giudizio sociale imperante che riduce tutto a perdonismo, buonismo, assistenzialismo».
Don Fausto è un uomo abituato a raccogliere le sfide, anche andando controcorrente. Oggi invita i cristiani bergamaschi a non stare alla finestra, a rischiare di più. Perché la situazione, dice, rischia di diventare insostenibile. Dentro il carcere. E anche fuori.
Don Fausto, sta dicendo che non c’è speranza?
«Carcere e strada sono un’umanità senza futuro. Un’umanità che chiede diritti, chiede accoglienza, chiede ascolto. Ma la situazione che stiamo vivendo è dominata dalla paura e dalla contingenza. Il dilagare della microcriminalità impedisce di pensare a delle risposte».
Ma perché sostiene che c’è un vuoto di offerta? In strada ci sono i servizi di assistenza e il carcere è pieno, è vero, però ci sono anche tanti volontari, tanti operatori che si occupano dei detenuti...
«Ma non basta che ci siano gli “addetti ai lavori” ai quali delegare i compiti. In questi anni credo che sia mancato il rapporto tra periferia e centro, tra le parrocchie e le realtà che svolgono i servizi. Forse abbiamo favorito anche un processo di rimozione che invece va evitato. Noi da soli possiamo fare poco, ma se pensiamo che la comunità cristiana c’è, e si mette in gioco accettando la sfida della diversità, è tutta un’altra cosa. Pensiamo ad esempio a cosa potrebbe succedere se ogni comunità si facesse carico dei detenuti che provengono dal proprio territorio».
Sta dicendo che da soli non ce la fate più? «Sto dicendo che l’intera comunità cristiana deve farsi carico della situazione. Se la risposta è lasciata ancora alla città ci troveremo di fronte a situazioni molto difficili».
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