to abbia meno bisogno.Dalla giungla alla pinetaLo sanno bene

A volte l’abitudine è pensare al prossimo bisognoso di aiuto come a qualcuno che chiama da un Paese povero dall’altra parte del mondo, ha gli occhi a mandorla o la pelle scura e parla un linguaggio incomprensibile. A volte capita, invece, che il prossimo (termine che non a caso trova etimologia nel superlativo latino «proximus», «vicinissimo») stia dietro la porta di casa. E non per questo abbia meno bisogno.Dalla giungla alla pinetaLo sanno bene i volontari dell’ospedale da campo della Fondazione Ana Onlus (Associazione nazionale alpini), che con questo spirito da vent’anni vivono con un piede alzato, pronti a partire in qualsiasi momento per qualsiasi destinazione. Cominciarono nel 1988, in Armenia. Poi sono stati in Kosovo, Ossezia, Sri Lanka. Ma anche a due passi da casa, nel Piemonte alluvionato, nell’Umbria terremotata e nella Roma del Giubileo, perché non sempre per farli intervenire deve scoppiare il finimondo. E adesso potrebbe attenderli un summit internazionale ad alto livello in programma la prossima estate.Eppure quello che stanno facendo da ieri a Clusone, presso l’ex Casa dell’orfano, neppure loro probabilmente se l’aspettavano. Non perché non siano pronti a tutto, ma semplicemente perché nessuno mai, in Italia, aveva finora avuto un’idea del genere: un ospedale da campo a sostituire una struttura sanitaria pubblica, facendo da pronto soccorso per quindici giorni, durante la complessa transizione dall’ospedale «San Biagio» di Clusone – che ieri ha chiuso i battenti – all’«Antonio Locatelli» di Piario. «E adesso possiamo affrontarlo con la necessaria tranquillità» racconta il direttore generale dell’Azienda ospedaliera Bolognini di Seriate, Amedeo Amadeo, che questa idea l’ha concepita e messa in atto («è stato difficile, ma eravamo fissati tutti e due») con il collega Lucio Losapio, direttore generale dell’Ospedale da campo Ana. Nuovo capitolo di una stretta collaborazione già avviata da tempo fra i due enti per un avveniristico progetto di telemedicina che proprio in questi giorni a Clusone trova la sua applicazione pratica. «Io stesso – prosegue Amadeo – pur conoscendo la struttura e le persone sono rimasto sorpreso dalla loro efficienza nel vederli all’opera».Una città dentro i containerUn’efficienza che si misura soprattutto quando i tempi sono ristretti, e l’ospedale va messo in piedi in fretta, in condizioni ambientali disperate, magari dopo lunghe ore di volo scomodo saltando sei o sette fusi orari in un colpo solo. Questa volta, l’intervento era previsto e programmato («abbiamo avuto tre giorni per montare tutto – racconta un veterano del gruppo – in Umbria ce l’eravamo dovuta sbrigare in sei ore»), e la configurazione realizzata abbastanza «soft». Si tratta del Dipartimento urgenza emergenza mobile, in sostanza il primo modulo (con pronto soccorso e ambulatori per patologie varie, traumatologia, pediatria e rianimazione) di una struttura che ha proprio nella modularità il suo punto di forza: in caso di intervento, ogni cellula diventa immediatamente operativa mentre si monta la successiva, finché l’ospedale arriva a diventare una vera e propria città, con tanto di potabilizzatori per l’acqua, forno per il pane e generatori da 200 kilowatt assistiti da gruppi elettrici di continuità per le sale operatorie. Può assistere un centinaio di persone al giorno anche se in fondo, dice Losapio, «un vero limite non ce l’abbiamo, perché siamo abituati ad affrontare le più grandi emergenze». Nel caso specifico, trattandosi di un pronto soccorso, sono stati allestiti 36 posti letto per malati acuti, «ma il valore di un ospedale non si misura dal numero dei posti letto. Io ne posso anche allestire 300, ma se poi non sono in grado di assistere i pazienti... Noi, ovunque andiamo, puntiamo soprattutto a garantire l’assistenza, anche quando capita di dover delegare ad altri la degenza».Guerre chimiche e infortuni sugli sciE l’assistenza spesso finisce per protrarsi oltre la permanenza, dato che parte della struttura (se non addirittura tutta) viene poi lasciata nelle zone di intervento. L’ultima volta è successo nello Sri Lanka, dopo lo tsunami, e anche per questo la struttura operativa impiegata a Clusone è completamente nuova.Come nuove sono le soluzioni tecnologiche messe a disposizione dalla telemetria, che consente la trasmissione di dati via onde radio, senza cablaggio, via internet, telefono, radio e satellite: soluzioni che consentono di coprire, in un modo o nell’altro, il 98% della superficie terrestre. Il sistema si chiama Scotty mobile, ed è nato per utilizzi militari da una collaborazione fra Usa e Austria. Grazie ad esso, spiega Giovan Battista Antongiovanni, responsabile dell’area cardiologica che ha curato l’evoluzione del Progetto telemedicina, «possiamo comunicare in qualsiasi momento, inviando dati e interfacciandoci in videoconferenza, con specialisti che si trovano dall’altra parte del mondo. Da un angolo remoto del Kazakistan posso consultare un neurochirurgo a Bergamo o a Seriate, magari trasmettendogli una Tac o un’ecografia».Un mix fra futuristiche tecnologie, moderne competenze e antiche doti umane, questa grande macchina dell’Ana. Per studiare la quale stamane sale in valle anche una delegazione della Nato, personale tecnico e scientifico che lavora al programma «Nato science for peace», riuniti in questi giorni a Milano per il convegno «Bio-hazard» dedicato alla formazione di manager per la gestione di grandi emergenze sanitarie, pandemie e rischio biologico, nucleare e chimico.All’ospedale da campo di Clusone lavorano ogni giorno 100 fra medici, infermieri e tecnici (parte precettati da tutta Italia, parte del «Bolognini»), che coprono due turni diurni da 40 e uno notturno da 20. Dato il periodo e la vicinanza con le piste da sci, è stata predisposta in particolare la presenza di un radiologo e un traumatologo ventiquattr’ore su ventiquattro. E il primo intervento, dopo l’apertura di ieri mattina alle 7, è stato proprio per una gamba fratturata, seguita a breve da una visita pediatrica.Un ponte sul futuroInsomma, subito sotto pressione questo ospedale un po’ «sui generis» per l’assenza di una struttura muraria. Il che non ha comunque avuto alcun impatto psicologico sui pazienti, rilevano gli operatori. E i pazienti confermano: dopo aver elogiato la disponibilità e la competenza del personale, una signora con un braccio ingessato spiega che «la sorpresa non è trovarmi in un ospedale da campo, ma essere finita in ospedale. Stamattina, quando mi sono alzata, era l’ultima cosa cui avrei pensato...».L’esperimento funziona, insomma. E anche se non aveva dubbi, Amedeo Amadeo lo rileva con un certo sollievo dopo aver chiuso per l’ultima volta («con un po’ di commozione») il «San Biagio» di Clusone, «un ospedale che ha fatto la storia dell’altopiano. Adesso c’è Piario, il futuro».E in mezzo l’ospedale Ana, a far da ponte fra passato e futuro. Prima di rimettersi in un hangar di Orio al Serio ad aspettare un prossimo che chiama. Chissà quando, da chissà quale angolo del mondo(06/12/2008)

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