NAIROBI (Kenya) - Siamo sempre in versione rewind. La partenza dal Cairo non è stata problematica perché è coincisa con il venerdì, giorno festivo, e dunque il traffico di mattina era inesistente.
Il fuoristrada è stato sempre parcheggiato in una via centrale adiacente l’albergo. Abbiamo pagato soltanto la prima sera il tesserino giornaliero dotato di microchip per la sosta prolungata. Quando scade, una sbarra sbuca dall’asfalto e impedisce il movimento laterale del veicolo: la sbarra era inesorabilmente alzata, ma davanti non avevamo nessuna macchina, così abbiamo eluso la trappola. Un cameriere del Cosmopolitan ci ha dato le indicazioni per rintracciare la strada per Hurghada, tuttavia nell’ultimo tratto cittadino ci siamo persi. Ci ha soccorso un passante che si è offerto di accompagnarci fino alla Katamia street e da lì è stato elementare imboccare la giusta direzione. Volevamo visitare le Oasi occidentali nel deserto per sbucare infine a Luxor, ma avremmo rischiato di perdere il traghetto per il Sudan.
Così abbiamo deciso di puntare rapidamente verso Luxor optando per l’arteria costiera che passa per Hurghada e non per quella che lambisce il Nilo. Strada molto scorrevole con il deserto sulla destra, mentre in riva al mare stanno nascendo nuovi insediamenti turistici: l’Egitto lavora per il suo futuro. Un rebus i cartelli chilometrici con la distanze da Hurghada totalmente sballate in rapida successione. Hurghada è una mostruosità architettonica perché è stata costruita senza la minima pianificazione (e ci sono chilometri di condominii in via di ultimazione), ma ha resort e un mare fantastici. Breve sosta su una spiaggia e continuazione verso Safaga, 60 km più a sud, punto di partenza del convoglio turistico per Luxor con la scorta armata.
Come abbiamo già raccontato sul giornale, non è una misura preventiva scattata dopo l’attentato di Sharm: è stata istituita nel 1997 quando una rivolta di fondamentalisti islamici costò la vita a diversi turisti ed è ancora attiva, nonostante la situazione si sia normalizzata. A Safaga abbiamo ingannato l’attesa in un Internet point, fino a quando un poliziotto non è venuto ad avvertirci che era già tempo di muoverci. Partenza alle 18 dalla stazione principale della polizia con tassa di meno di un euro da sborsare: quattro vecchi pick-up semicabinati con 18 soldati e poliziotti per scortare sei veicoli, il nostro Toyota, tre minibus, un pullman e una berlina. Eravamo in pole position, ma il fuoristrada non si è acceso, così siamo sfilati in retroguardia. Due pick-up davanti, due dietro. Il primo tratto desertico con rilievi collinari in prossimità dei due lati della strada in teoria è l’ideale per un agguato, ma tutto è filato liscio. Dopo il primo controllo la fila indiana è sembrata sfilacciarsi, tanto che al secondo ci stavano fermando credendoci viaggiatori solitari, ma il convoglio si è subito ricompattato. Era ormai buio quando abbiamo attraversato le strade delle città e chilometri di viali alberati a velocità folle con la polizia che bloccava il traffico sulle vie laterali. Un’esagerazione. Siamo arrivati a Luxor, dopo 225 km, alle 21,30 e il primo giovane a cui abbiamo domandato informazioni ci ha incredibilmente risposto come il tipo di Bengasi: «Berghèm de sùra o de sota?». Conosce la nostra città perché lavora in un negozio di papiri che sono esportati anche in Italia. Eravamo un po’ stanchi, tanto che abbiamo tentato di aprire la porta della camera dell’hotel con la chiave del fuoristrada... Però ci siamo infilati lo stesso in un Internet point e a mezzanotte in un pub all’inglese, ma il cuoco non c’era più. Digiuno, ormai siamo abituati.
La mattina successiva visita alla Valle dei Re che dista in linea d’aria una decina di km, ma è sulla sponda occidentale del Nilo. Ne abbiamo percorsi quasi il quadruplo per scovare il ponte e ci hanno fermato per due controlli. Al sito archeologico abbiamo ritenuto non indispensabile la borraccia d’acqua: errore imperdonabile, il caldo era allucinante e dopo mezzora eravamo fradici di sudore, come mai forse ci era successo nella nostra vita.
Comunque, abbiamo elargito una mancia al custode della deludente tomba di Tutankhamen per eludere il divieto di fotografare e ci siamo arrampicati sulla scalinata che conduce alla tomba di Tuthmosi III, la più inaccessibile nella valle. Poi tre tuffi: uno in due litri di acqua ghiacciata che abbiamo bevuto in due sorsi (uno dei ricordi più belli del viaggio), uno nel villaggio di Gurma, dove il tempo sembra essersi fermato al Medioevo (atmosfera peraltro normale in Egitto), e uno nella piscina dell’hotel per una pausa rigeneratrice. La tappa all’Internet point è stata sofferta, perché la polizia è venuta due volte a dirci di spostare il fuoristrada. Nel tardo pomeriggio il tempio di Karnak (davanti al quale non abbiamo potuto parcheggiare per le nuove misure antiterrorismo del dopo Sharm; peccato che il controllo al metal detector sia stato inesistente) ci ha sbalordito per le sue dimensioni, tanto che ci si sente minuscoli, quasi insignificanti, di fronte alla foresta di 134 colonne alte una trentina di metri e con un diametro di tre metri;
in serata quello di Luxor ci ha entusiasmato per la sua raffinatezza, anche se non ce lo siamo goduto perché eravamo intenti a fotografare le sue bellezze prima che scendesse il buio della notte.
Abbiamo cenato sul lungo Nilo, dove sono ormeggiate le feluche e le lussuose navi da crociera, ripromettendoci di correre di meno. Ma non sarà possibile.
Ah si, ci scordavamo, il Nilo: è magico. Il Nilo è acqua, vegetazione rigogliosa, agricoltura, sostentamento, vita. Il giorno dopo alle 7 partenza per Assuan, distante 190 km, sempre in convoglio, ma con la scorta armata dimezzata: due pick-up invece di quattro sempre per sei veicoli. Tre controlli, ma meno tensione, tanto che in un centro abitato ci siamo persi: eravamo i primi della fila indiana, il pick-up d’avanscoperta si era fermato chissà dove per una sosta e noi l’avevamo superato senza saperlo. La sirena ululante del pick-up in rimonta ha cancellato la nostra incredulità. Ad Assuan ci attendeva Hamdy, sudatissimo corrispondente di Avventure nel mondo, pesante circa 150 kg, che ci ha aiutato nelle pratiche burocratiche inerenti la riconsegna della targa e della patente egiziane. Caldo pazzesco. Hamdy ci ha raccontato che il giorno prima il telegiornale aveva parlato di 48 gradi, ma in realtà erano di più (per legge se si superano i 50 gradi nessuno lavora, per cui il governo dà informazioni non esattissime...). Pensavamo fosse un’esagerazione, invece è stata sufficiente una camminata di cinque minuti per stroncarci: davvero impossibile fare qualunque cosa, se non oziare al bar o davanti a un ventilatore bevendo un tè ghiacciato. Avrebbe dovuto essere una giornata di relax, invece abbiamo scoperto che l’articolo e le foto che avevamo inviato il giorno prima da un Internet point non erano arrivate alla redazione web e allora abbiamo dovuto rimediare rodendoci il fegato, anche perché il telefono satellitare continuava a non funzionare bene. Il tramonto sul Nilo l’abbiamo ammirato dalla Nubian House, un bar-ristorante su un’altura, ma non è stato uno spettacolo indimenticabile perché l’isola Elefantina, al centro del fiume, è rovinata da un’orribile struttura alberghiera. Scendendo in città ci siamo imbattuti in un matrimonio cristiano con la chiesa straripante di fedeli.
Ed è venuto il giorno della partenza in traghetto per il Sudan. Hamdy ci ha accompagnato al porto sul lago Nasser (il bacino artificiale più grande del mondo) dove in un’oretta abbiamo superato i controlli doganali egiziani: stavolta i doganieri hanno ignorato le ormai famose banana radio (salvo pretenderne due in regalo), ma si sono soffermati sui medicinali e sui cavatappi e un funzionario ci ha domandato se avessimo trafugato reperti archeologici. Timbro sul passaporto e via libera. Il dramma è stato attendere quasi quattro ore per caricare il fuoristrada sulla chiatta che avrebbe viaggiato separatamente dal traghetto e impiegato purtroppo un giorno in più per arrivare a destinazione. Un’attesa consumata sotto il tetto di un barcone in disuso (dove un giovane ci ha informato della morte del vicepresidente sudanese Garang in un incidente aereo e della tensione politica che sarebbe aumentata) e nella nostra cameretta doppia: tre metri per due con un letto a castello, un armadietto e il condizionatore.
Non abbiamo capito chi fosse il nostro compagno di stanza, visto che si sono catapultati dentro una decina di studenti in gita. Due ragazze ci hanno offerto un panino con l’uovo e uno con pesce e patatine. Un antipasto della gentilezza sudanese. Finalmente, dopo che è stata caricata una montagna di merce (elettrodomestici, pezzi di ricambio, prodotti in plastica cinesi), abbiamo potuto sistemare il Toyota sulla chiatta (insieme al Land Rover di un olandese), nella speranza di rivedere al più presto il nostro amato fuoristrada. Rotta sul Sudan.
(17/08/2005)
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