Cronaca
Sabato 03 Dicembre 2005
Sanfilippo racconta l’ultima tappa africana: dal Botswana al Brasile
FLORIANOPOLIS (BRASILE) - Sì, sono in Brasile. E precisamente a Barra di Lagoa che è un paesino sulla costa orientale dell’isola di Santa Catarina dov’è ubicata Florianopolis, la capitale dello Stato di Santa Catarina che è a sud del Brasile e confina a ovest con l’Argentina. Sono entrato in Brasile in attesa del fuoristrada (la nave con il container dovrebbe attraccare domani nel porto di Buenos Aires, almeno spero). Un volo della Gol, la compagnia low cost brasiliana, da Buenos Aires a Sao Paulo (240 euro andata e ritorno), la visita a un bergamasco-brasiliano, Sandro Ghilardi, che abita a Cacapava e lavora alla Embraer, il terzo colosso al mondo per la produzione di aerei (ho visitato la fabbrica), e tre giorni in riva al mare, da dove vi sto scrivendo, ma solo perché il tempo è maledettamente nuvoloso....
Rio de Janeiro era più vicina, ma la conosco già bene e allora ho preferito cambiare obiettivo. Lunedì rientrerò a Buenos Aires, alla fine di settimana prossima ritirerò il Land Cruiser, a meno di lungaggini nei controlli doganali, e finalmente il viaggio diventerà di nuovo on the road. Non sarò solo. Se non si perderanno per strada ci saranno con me Stefano, un collega del giornale (che atterrerà a Santiago del Cile il 12 dicembre), e Nicola, un piacentino giramondo che ho conosciuto all’ostello di Buenos Aires e che le ultime notizie davano disperso sulle montagne nei dintorni di Mendoza. Dobbiamo ancora fissare il punto del rendez-vous. In linea di massima trascorreremo Natale e Capodanno in Patagonia, il resto si vedrà.
Ancora non ho deciso se, dopo la Bolivia, rientrerò in Brasile per risalire lungo tutta la costa, entrare in Amazzonia (penso senza fuoristrada perché sono un po’ pazzo ma non scemo), continuare per Guyana Francese, Suriname, Guyana, Venezuela, Colombia e infilarmi nel corridoio centroamericano oppure attraverserò Perù, Ecuador e Colombia sulla via dell’America centrale. Intanto, continuo il racconto dell’avventura africana.
Il Botswana è il Paese al mondo con la maggior percentuale di infetti dall’Aids (circa il 30%), ma è uno dei più ricchi dell’Africa per il suo patrimonio di diamanti. Quando abbiamo superato i controlli alla frontiera dello Zimbabwe, io e Sivan pensavamo che entrare in Botswana sarebbe stato come bere un bicchiere d’acqua. Invece è stato l’esatto contrario. La povera israeliana ha dovuto sborsare addirittura l’equivalente di 80 euro per il visto, mentre per i cittadini italiani è sufficiente esibire il passaporto. Per me l’unica tassa è stata rappresentata dai 12 euro relativi all’importazione temporanea del fuoristrada. Ma è nato un problema incredibile. Al confine di Kazungula si deve pagare esclusivamente in pula, la valuta locale, non sono accettati nemmeno i dollari Usa che di consueto godono di una considerazione universale. E il bello è che in frontiera non c’è un ufficio di cambio e di mercato nero neanche a parlarne E noi come diavolo avremmo potuto avere i pula, considerato anche che in Zimbabwe la valuta straniera è una chimera?
Dopo mezzora di discussioni ci hanno consentito di entrare nel Paese, arrivare alla prima banca, distante 12 chilometri, cambiare i soldi e correre di nuovo al confine per completare l’iter burocratico. Una banca l’abbiamo scovata subito, a Kasane, peccato che ci fosse una fila incredibile, che per un problema tecnico l’attesa per avere i soldi, sia con i travellers’ cheque, sia con la carta di credito, fosse snervante (lo sportello automatico era ko) e che per un guasto l’aria condizionata non funzionasse (e c’erano 40 gradi). Abbiamo impiegato tre ore per strappare con i denti i pula, precipitarci al confine e regolarizzare la nostra posizione. Quella sera abbiamo dormito in un campeggio tra il confine e Kasane e io ho tirato fuori la tenda che non usavo dalla scalata del Kilimangiaro. Un cartello avvisava di stare attenti per la possibile incursione notturna di ippopotami e coccodrilli (eravamo quasi sulla riva del fiume Chobe). Il tramonto sul fiume l’abbiamo ammirato dal porticciolo del Chobe Safari Lodge, uno splendido resort che abbiamo scoperto avere anche un’area per il campeggio. Ci siamo trasferiti lì il giorno dopo.
In Botswana, così come in Namibia, ci sono splendide strutture turistiche che al loro interno hanno svariate sistemazioni, dalle più lussuose alle più economiche, ed è positivo che anche chi opta per la soluzione meno dispendiosa può usufruire delle comodità del resort, come la piscina. La sera abbiamo cenato al lodge pagando 15 euro (tanto per l’Africa, ma ne valeva la pena) per un ricco buffet con cucina prevalentemente africana (festival della carne d’antilope) e la vista dalla terrazza era stupenda. Il giorno dopo stava per materializzarsi nuovamente l’incubo del carburante. Ero quasi a secco (per attraversare lo Zimbabwe avevo consumato anche tutto il diesel nelle taniche), ma lo erano pure i due distributori di Kasane che erano in attesa dell’autocisterna. Sono dovuto tornare ancora al confine per rifornirmi! Abbiamo trascorso la mattinata al Chobe National Park (20 euro per persona più 8 euro in totale per il fuoristrada), nella famosa area di Serondela, dove ho sopportato la temperatura record del raid, almeno per il momento. Sul computer di bordo del fuoristrada, che di solito è preciso, è comparsa la temperatura esterna: 54 gradi! (io l’ho fotografato a 52). In effetti c’era un caldo pazzesco, ma era molto secco, cosicché non siamo stramazzati al suolo.
Il Chobe National Park è famoso per il numero inverosimile di elefanti (il Botswana è il Paese che ne ha di più al mondo, 65.000). Ed è proprio così. Lo sterrato corre spesso accanto alla vegetazione intricata e all’improvviso ne sbucavano fuori due o tre. Una volta siamo stati addirittura circondati. In questi casi bisogna assolutamente fermarsi, spegnere il motore e attendere la sfilata dei pachidermi. Muoversi potrebbe essere interpretato come un segnale d’attacco e l’elefante potrebbe caricare per difendersi con conseguenze che è preferibile non immaginare. Il pomeriggio è stato dedicato a un’escursione, organizzata dal lodge, con una barca a motore sul fiume Chobe che segna per un tratto la linea di confine tra Botswana e Namibia. Eravamo all’incrocio di quattro Paesi perché a est di Kasane ci sono Zimbabwe e Zambia. L’escursione è stata indimenticabile in quanto abbiamo osservato numerosi animali (coccodrilli, ippopotami, elefanti, bufali, antilopi...), sia in acqua, sia a Sududu, un’isoletta in mezzo al fiume, e perché ci siamo goduti un tramonto da favola: il cielo è diventato arancione, rosa e il sole si è inabissato proprio quando avevo in primo piano nella fotocamera un elefante che si abbeverava e una miriade di volatili. Una delle mie fotografie più belle.
Ennesima sveglia all’alba per arrivare a Maun e subito una brutta sorpresa. La strada passa per il Chobe National Park e, anche se non ci si ferma per visitarlo, si deve pagare comunque l’entrata salata. Accidenti. Seconda brutta sorpresa: pensavo che la strada fosse scorrevole e invece si è trasformata ben presto in uno sterrato sabbioso. Era dal Kenya che non percorrevo una pista, parchi esclusi. Ho dovuto ridurre la velocità ma non mi sembrava nulla di insidioso, anche perché non vedevo pietre assassine. E invece, terza brutta sorpresa, mi è scoppiata improvvisamente una gomma, quella posteriore destra. Non ho sbandato, ho continuato un centinaio di metri per potermi accostare in sicurezza e quando sono sceso dal fuoristrada ho dovuto purtroppo constatare che lo pneumatico era letteralmente distrutto. Un mistero. Per aiutarci si sono fermati una coppia di tedeschi, un gruppo di inglesi e la polizia del Botswana che ha sgridato i turisti perché si erano fermati!
Cambiata la ruota (ne ho tre di scorta), abbiamo continuato su una pista che è diventata angusta, ci passava a stento un fuoristrada: le tracce solcavano la sabbia alta, l’erba s’infiltrava nel radiatore e i rami delle piante strisciavano sulle fiancate del Land Cruiser. Quando piove penso che la pista diventi impraticabile. La coppia di tedeschi che ci aveva dato una mano si è insabbiata e allora siano stati noi ad aiutare loro cercando rami, sassi, escrementi secchi di elefante da infilare sotto le ruote per fare presa. Io ero lontano una cinquantina di metri, per evitare di insabbiarmi, le ruote stavano già affondando un po’, ho subito inserito il sistema di bloccaggio del differenziale posteriore e sono balzato fuoripista, tra gli arbusti, superando il tratto più insidioso. Giornata dura, dieci ore al volante, ma paesaggio affascinante e originale.
È come se avessimo attraversato quattro stagioni, non per la temperatura (sempre calda), ma per le bizzarrie della natura. C’è stato un tratto in cui sembrava autunno, alberi spogli e foglie secche, uno in cui pareva inverno per la sabbia bianca come neve. Già la sabbia, bianca ma anche rosa, beige, uno spettacolo di colori in un paesaggio che mutava continuamente, così come la larghezza della pista (in un punto si è trasformata in un’autostrada in terra battuta): deserto più o meno desolato, savana più o meno ricca di vegetazione, paludi, collinette, praterie, pozze d’acqua.
E villaggi minuscoli in cui il tempo sembra non trascorrere mai. In Botswana le classiche capanne hanno un recinto esterno che assicura una maggiore protezione. Ci siamo concessi una sosta in un villaggio, attirati da una casupola verde con la scritta «Beer fall» (cascata di birra), dove ci siamo dissetati e abbiamo immortalato la donna, che gestiva il negozietto, con il suo bambino promettendole che le avremmo inviato la foto.
A Maun abbiamo organizzato il resto della settimana in Botswana. Ci siamo fermati tre notti nel Sedia Hotel, una delle più belle sistemazioni della città, sfruttando uno sconto del 50% perché era il weekend della festa dell’indipendenza (così abbamo pagato 48 euro una doppia con la colazione). Da vedere c’erano il delta dell’Okavango, il fiume che muore nel deserto, le Makgadikgadi Pans, ovvero l’insieme di saline più grande del mondo, e il Central Kalahari Game Reserve sulla strada per la Namibia. Abbiamo prenotato i campeggi (in Botswana è obbligatorio) per le ultime due destinazioni, abbiamo caricato il fuoristrada di provviste (per conservare il cibo nel frigoriferino il più a lungo possibile ci rifornivamo di blocchetti di ghiaccio), acqua e carburante perché avevamo preventivato di stare tre giorni fuori dal mondo, ma non ci siamo preoccupati di pensare all’escursione in mokoro (la canoa scavata nel legno d’ebano o kigelia; quelle moderne sono realizzate in fibra di vetro) nel delta dell’Okawango che era la destinazione più vicina. Quando ci abbiamo pensato era già sabato sera. Così è saltata la meta più classica del Botswana. Abbiamo tentato di vedere lo spettacolo dei canali e delle lagune dall’alto con un tour aereo, ma eravano solo in due e sarebbe costato uno sproposito. Un peccato, è stato uno dei due errori strategici del viaggio africano insieme al tempo insignificante dedicato all’Etiopia. Il giorno dell’indipendenza l’abbiamo così trascorso nella piscina dell’hotel tra un nugolo di bambini in festa che si esibivano in tuffi e in improbabili stili di nuoto. Nell’adiacente Sports Bar and Restaurant abbiamo consumato due serate appaganti: il cuoco era un fenomeno e ci ha cucinato pasta, pizza, carne e dolci come se fossimo in Italia. Il lunedì partenza. Studiando bene la cartina, abbiamo deciso di non dormire a Khumaga (avevamo prenotato ma non ancora pagato), bensì di puntare direttamente nel cuore delle saline, più a est, e campeggiare liberamente.
La scelta è caduta sulla salina di Ntwewe che è quasi sempre asciutta. È stata un’avventura nel vero senso della parola. Avevamo una cartina dell’area e il Gps, ma continuavamo a perderci perché c’erano mille piste che si intersecavano tra la vegetazione bassa e i letti prosciugati di fiumi e bacini, così come morivano nel nulla, non ci capivamo assolutamente più niente. Inutili le indicazioni che ci aveva dato a Gweta, l’ultimo lembo di civiltà, il gestore inglese di un campeggio. L’israeliana mi avrà dato dell’incosciente nei suoi pensieri.
Per districarci nel labirinto, abbellito da due giganteschi baobab, ci hanno dato una mano, nell’ordine, tre bambini, a cui abbiamo regalato dolci, due giovani di un villaggio che sembrava deserto, un uomo attempato che per un tratto ci ha accompagnato con il suo fuoristrada (ho ricambiato il favore aiutandolo a scaricare la legna dal pick-up), due guide del Jack’s Camp e infine il gestore del Jack’s Camp, un lodge extralusso con tende dotate di ogni confort, guide laureate e cucina internazionale (per la modica cifra di 400 euro a notte).
Il gestore ci ha disegnato una mappa, ci siamo persi ancora, ma tentando e ritentando, dopo aver percorso il doppio dei chilometri segnati sulla cartina, ecco finalmente il lago salato, una distesa bianca, accecante, non indimenticabile come il Salar de Uyuni in Bolivia, ma che ci ha ripagato della fatica. In pratica le incrostazioni di sale sono ciò che resta di un superlago, il più grande di tutta l’Africa, che si prosciugò per cambiamenti climatici circa 10.000 anni fa. Abbiamo attraversato il Ntwewe Pan fermandoci di tanto in tanto per godere di quella vista surreale e eterea che era tutta per noi, considerato che non c’era nessuno. Subito dopo la salina c’era un punto di controllo veterinario (a proposito, il giorno prima ne avevamo incrociato uno e ci avevano domandato soltanto i documenti...). Il custode ci ha consentito di piantare lì le tende (ma io ho dormito nel fuoristrada) e siamo corsi ancora nella salina per non perderci il tramonto. Ho scattato una fotografia curiosa, che non è stata modificata al computer, in cui il sole sembra deformarsi scontrandosi con la terra.
Quella sera Sivan ha cucinato per la prima volta con il fornellino: riso con pomodori, tonno e cipolle. Per colazione all’alba abbiamo instaurato la tradizione del tè con i biscotti. Temevo una nuova odissea per individuare la strada per il Central Kalahari. Invece è stato sufficiente non perdere di vista il filo spinato del cordone veterinario (indispensabile per separare gli animali selvatici da quelli di allevamento) e, quando dovevamo deviare, c’era ad attenderci un cartello - incredibile, un cartello - con la scritta «Mopipi», cioè un paese che era nella direzione giusta. Abbiamo anche percorso un pezzo di strada asfaltata ma insidiosa perché con una buca dietro l’altra. Dire che è stata una passeggiata è esagerato, ma in definitiva siamo entrati nel Central Kalahari Game Reserve senza dannarci.
La riserva, l’area protetta più grande dell’Africa, è stata una delusione per lo scarso numero di animali (e scorgerli era ancora più problematico per l’erba ingiallita molto alta ai bordi della strada) c’era un caldo infernale (50 gradi) e lo sterrato era snervante a tratti. È stato invece emozionante e da brividi dormire in uno dei campeggi interni. Sono molto spartani, si tratta soltanto di una radura con un bagno e nulla più. Nessuna recinzione, nessun turista al di fuori di noi nel campeggio di Deception. Per cucinare e cenare abbiamo usato una torcia, senza nemmeno accendere un bel fuoco. Non so dire se abbiamo rischiato l’incursione di qualche leone, so solo che io mi sono tenuto abbastanza vicino alle portiere del fuoristrada... Abbiamo stappato una bottiglia di vino sudafricano rosso, l’Hazendal, un cabernet sauvignon di 13,5 gradi, perché quella notte cadeva il Capodanno ebraico. Come alla salina, è stata una sensazione bellissima. Era come se la riserva, un pezzetto di mondo fosse soltanto nostro, e noi fossimo totalmente liberi.
I San, l’antico popolo ormai emarginato come gli indiani d’America e gli aborigeni in Australia, dicono che qui le stelle cantino. Io non le ho sentite cantare, ma senza luci artificiali il cielo era uno spettacolo da mille e una notte. Tra i Paesi attraversati nel raid, il Botswana è quello in cui è emersa maggiormente la dimensione selvaggia dell’Africa. Quella sera ho telefonato a un mio amico con il satellitare e ho sentito in diretta il gol di Trezeguet contro la mia amata Inter. Tanto per cambiare... Ho dormito ancora nel fuoristrada, odio la tenda, il dover montare, smontare e rimontare. Nel Land Cruiser si sta abbastanza comodi sul «letto» di legno: sono in pratica due assi estendibili, che mi ha costruito un falegname di Bossico, si può ascoltare la musica ed è garantita una maggiore sicurezza. Il mattino dopo abbiamo tentato i vedere i leoni prima di salutare il parco e, quando stavamo ormai desistendo, ecco sotto un albero quattro leonesse che si stavano riposando. Missione compiuta, foto e via verso la Namibia.
Dal Matsweregate ci siamo sciroppati quasi 200 km di sterrato sabbioso e compatto che scorreva a fianco del filo spinato del Kuke Buffalo Fance, e quando a Kuke ci siamo immessi nella Trans-Kalahari Highway, praticamente un’autostrada liscia come un biliardo, ci è parso di sognare. Ma la Namibia ormai era quasi realtà.Marco Sanfilippo
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