Ricordi di quel muro che non c’è più
La guerra fredda ora è economica

«La città è addirittura divisa da un muro. Impossibile non ci sia un segnale stradale per Berlino Ovest». Ce lo domandavamo increduli in auto arrivando dalla Cecoslovacchia in quell’agosto 1989.

Ma niente, nessun cartello, così continuammo dritto verso la direzione di un aeroporto, come ci suggeriva la lettura della cartina geografica. Finimmo naturalmente nella periferia di Berlino Est e lo scoprimmo quando la polizia della Repubblica Democratica Tedesca, la famigerata VoPos, ci fermò.

Interrogatorio, e se per me e il mio amico - allora studenti universitari - non ci furono grandi problemi, per la ragazza che era con noi, impiegata di un’azienda elettromeccanica di Bergamo, le domande e le insinuazioni si rivelarono pressanti. Sospettavano addirittura spionaggio industriale. Ispezionarono l’auto con i cani lupo e per controllarla sotto utilizzarono enormi specchi. Fu un’attesa snervante, i VoPos si collegarono ripetutamente con il loro comando e alla fine constatarono che eravamo soltanto giovani turisti che avevano sbagliato strada. Dopo averci accusato di sconfinamento e affibbiato una multa che evitammo di pagare dicendo di non avere contanti e che non pagammo mai, i torvi tutori dell’ordine della Ddr ci scortarono, tra i campi e la desolazione, fino al nemico, il loro, in uno sperduto punto di passaggio tra Berlino Est e Berlino Ovest.

La racconto perché fu un’esperienza soltanto di qualche minuto, ma elettrizzante e intensissima. Una delle più indimenticabili del mio girovagare per il mondo. Ci scaricarono a due passi dal check point e se ne andarono. Ci accolse un sergente americano con un sorriso radioso e fiero che ci disse che eravamo arrivati in un Paese libero, che di là c’era buio e disperazione e di qua luce e gioia. In quel momento mi sentii improvvisamente catapultato nel cuore della guerra fredda tra Occidente e blocco sovietico, immaginai quale doveva essere l’atmosfera tragica della Seconda guerra mondiale, il clima di odio, e mi sembrò di essere entrato in contatto con la storia.

L’impatto fu stordente. A Berlino Ovest e vedemmo fiammanti auto tedesche, villette con i fiori sul davanzale e una vita pulsante. Immagini che già stridevano con quel poco che avevamo percepito al di là del muro e che furono confermate quando entrammo legalmente a Berlino Est (ai turisti era concessa una visita giornaliera attraverso il famoso Checkpoint Charlie in Friedrichstrasse): immensi e tetri condomini di stampo sovietico, le scassate Trabant che circolavano sbuffando e un’atmosfera mesta, cupa.

Rientrati a Berlino Ovest, una mattina all’alba camminammo dalla Porta di Brandeburgo per diversi km lungo il muro per fotografare i graffiti e i murales che più toccavano i nostri sentimenti, scossi dall’inconcepibilità di ciò che stavamo vedendo. Soltanto pochi mesi prima, a marzo, l’ennesima persona era morta nel tentativo di scavalcare la barriera di cemento armato eretta nel 1961 per evitare che i tedeschi orientali emigrassero in massa a Ovest.

Anche se con l’avvento in Unione Sovietica di Mikhail Gorbaciov si sentiva che il vento della storia sarebbe potuto cambiare, in quella mattinata nuvolosa la tristezza era infinita, ci colpì un vecchio su un’impalcatura che pennellava parole di pace sul muro, mentre cecchini armati sulle torri di guardia nella «striscia della morte» osservavano la situazione. Non c’era assolutamente il sentore che quel muro fosse destinato a crollare in breve tempo. Sembrava dovesse resistere in eterno come emblema dell’anticiviltà e della stoltezza dell’uomo. Invece, esattamente tre mesi dopo....

Il muro non c’è più, così come non c’è più la guerra fredda. Perlomeno quella guerra fredda. Resta sì la contrapposizione tra le grandi potenze, America e Russia, e lo dimostra il caso Ucraina, ma questa vecchia Europa la sua vera guerra la sta combattendo senza truppe e missili contro la crisi economica.

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