Post terremoto: «Edifici pubblici?
In sicurezza soltanto uno su quattro»

«Mettere in sicurezza il Paese non è come dirlo», spiega l’ingegner Bruno Finzi, membro del Consiglio nazionale degli ingegneri, consigliere delegato del Centro di analisi strutturale, esperto di strutture antisismiche.

«La prima cosa da fare è una diagnosi: capire il patrimonio edilizio esistente e, a seconda delle zone in cui si trova, qual è la sua vulnerabilità. Perché ovviamente un edificio si comporta in maniera diversa di fronte a sollecitazioni sismiche a seconda di come è costruito e dei materiali che sono stati impiegati».

Siamo il Paese più a rischio sismico d’Europa, insieme con la Grecia. La mappatura della vulnerabilità degli edifici italiani non è mai stata prevista?«Dopo il crollo della scuola di San Giuliano, nel 2003, è stata emessa un’ordinanza del governo che prevedeva questo tipo di analisi per tutti gli edifici di interesse pubblico, come le scuole e gli ospedali, o di interesse strategico, come le caserme. Questo censimento era stato delegato agli enti locali».

Ed è stato fatto?«Non è ancora completo, siamo a circa il cinquanta per cento degli edifici. Una volta fatta l’analisi della vulnerabilità, è sempre compito dello Stato prevedere un progetto di ricostruzione, di adeguamento o di miglioramento di queste strutture. Di questo cinquanta per cento, la metà degli edifici è stata adeguata alle necessità di sicurezza. Quindi siamo a un quarto degli edifici pubblici messi in sicurezza».

La stessa cosa andrebbe fatta per gli edifici privati…«Naturalmente. Ci vorrebbe una legge che rendesse obbligatoria come minimo la diagnosi, cioè l’analisi della vulnerabilità degli edifici. Poi io, come proprietario, decido cosa fare. Magari me la tengo così com’è lo stesso, ma almeno so che cosa rischio in caso di sisma».

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