MENDOZA (ARGENTINA) - Puntata dedicata ancora alla Namibia e focalizzata sul popolo himba. Intanto, la notizia d’attualità è che sono di nuovo al volante. Ho penato una settimana, ma la Toyota Land Cruiser è sbucata dal container senza il minimo danno in terra argentina, così mi sono rituffato «sulla strada» per recuperare i miei due nuovi compagni di viaggio, ovvero Nicola, un ventiseienne piacentino conosciuto a Buenos Aires che ho riabbracciato a Mendoza, e Stefano, un collega del giornale, atterrato a Santiago del Cile. Si è composto dunque un inedito trio, l’obiettivo è la Patagonia, Ushuaia e la «fine del mondo», e la prima tappa in direzione sud è stata il trekking di tre giorni al campo base dell’Aconcagua e dintorni (4.300 metri) sulle Ande argentine. È strano, avrebbe dovuto essere un giro del mondo in solitario e invece, in cinque mesi di raid, sono stato veramente da solo per nemmeno trenta giorni. Ma è sempre così: i viaggiatori «globali» hanno in comune la filosofia di vita e così è naturale conoscersi, intendersi e condividere la passione per l’avventura.
Dopo un mese senza il fuoristrada ho riscoperto il gusto di guidare, la libertà di potermi infilare in qualche stradina alla caccia di una giornata sorprendente. Come quella che vi sto per raccontare. Opuwo è la città principale del Kaokoveld, la regione nord-occidentale della Namibia, al confine con l’Angola. Un’area remota, considerata la più selvaggia del Paese e sicuramente lo è, considerato che nei dintorni di Opuwo non c’è nessuna traccia di modernità e che la città è un polveroso agglomerato di case. In futuro il progresso è destinato a sfondare. È in fase di avanzata costruzione una strada asfaltata, è stato già completato il tratto conclusivo di circa 30 km che conduce a Opuwo, mentre il primo tratto venendo da est si è rivelato un mezzo tormento perché c’erano i lavori in corso, cosicchè abbiamo dovuto guidare (sì, abbiamo dovuto, anche Sivan mi ha dato una mano al volante) su uno sterrato d’emergenza.
A Opuwo siamo stati intercettati da una guida che ci è sembrata affidabile e abbiamo contrattato un’escursione in un villaggio Himba, sottolineando che non avrebbe dovuto essere la classica visita turistica, volevamo proprio vivere un’esperienza alternativa. Abbiamo pattuito l’equivalente di 15 euro per lui e, su suo suggerimento, abbiamo comprato generi alimentari e non al supermercato (riso, farina, caramelle, due tipi di tabacco, vaselina, caffè e zucchero) da regalare al villaggio come forma di pagamento e segno di amicizia. Gli Himba (ormai meno di 10.000) sono pastori seminomadi discendenti di Herero che persero lotte tribali e si rifugiarono nel nord. Sono un popolo che rifiuta la modernità (nonostante diversi Himba siano relativamente ricchi perché allevano il bestiame) e desidera vivere fuori dal mondo. Le donne hanno un ruolo fondamentale all’interno del clan gestendo la casa, i figli e la scarsa dieta alimentare.
Appuntamento al mattino dopo. Le promesse sono state mantenute: la guida, che masticava un pessimo inglese, ha esagerato e ci ha guidato non in un villaggio, ma in due capanne himba sperdute a 65 km a nord di Opuwo. La strada principale era uno sterrato sali e scendi, ma quando abbiamo deviato è diventata una mulattiera terribile in salita che si intersecava con il letto asciutto di un fiumiciattolo.
Non credevo fosse possibile passare, mi ha convinto la guida. Per fortuna era soltanto un chilometro che ho percorso a passo di tartaruga. Il minivillaggio era composto da due capanne circolari con il tetto a cupola e costruite con rami di acacia, fango e sterco, da una tenda per ripararsi dal sole, da una capannina, che integrava il tronco di un albero, adibita a luogo di preghiera (gli Himba sono un popolo animista che ha il culto degli antenati) e da un recinto con dentro circa un centinaio di capre.
Il fuoco «sacro» arde sempre tra il recinto e le capanne. Appesi sui rami borracce, coperte e bidoncini. Terreno arido e desolato, null’altro. C’erano una donna con i suoi tre figli di minore età (ne ha sei in totale, i rimanenti tre erano con il padre) e una donna più vecchia che però non abbiamo saputo chi fosse (sembrava una nonna).
La guida è stata abbastanza evasiva, si è limitata a dirci che dal look doveva aver appena perso una persona cara. Non conosceva nemmeno i loro nomi, così come l’età (comprensibile, non lo sanno neanche i diretti interessati: gli Himba non contano gli anni). L’imbarazzo si è presto dissolto, la loro diffidenza è scomparsa, così come il nostro timore di violare una privacy custodita gelosamente. Ho potuto fotografare senza problemi.
La donna più giovane, che chiameremo per comodità Ilala (nome che indica il frutto di una palma) e che parlava in dialetto herero con la guida, ha invitato Sivan a cospargersi una gamba e un braccio con la mistura rossa di ocra, burro (se manca si usa la vaselina) e cenere. Viene usata per proteggere la pelle dai raggi del sole, per contrastare il naturale invecchiamento e come repellente per gli insetti. Ma Sivan ha mormorato che per lei quella cremina appiccicosa non allontavana gli insetti, era l’esatto contrario. La mistura è applicata anche sulle treccine dei capelli che diventano quasi un’opera d’arte.
Gli Himba non si lavano (e si sentiva), usano un profumo che producono bruciando un tipo di legno: il fumo viene assorbito dal corpo e dai succinti indumenti di pelle. Ilala era la classica donna Himba: minigonna in pelle di capra, l’ombuku, e una miriade di ornamenti. I più ordinari sono collane e cinture realizzate con grani metallici infilati nel cuoio. Se una donna è sposata ha uno stranissimo copricapo di pelle e pelo di capra e dopo il primo figlio riceve dalla madre l’ohumba, un gioiello prezioso realizzato con una grande conchiglia (simbolo di fertilità) proveniente dall’Angola. Nel caso di Ilala, i cerchi d’argento stretti sulle caviglie indicavano il numero dei figli. Il bambino più piccolo dei tre veniva trasportato sulla schiena dalla mamma, quello di età intermedia era abbastanza denutrito, mangiava con le mani una pappa tra la polvere e giocava con le caprette, mentre il più grandicello ci osservava con orgoglio ed era già autosufficiente. A lui ho regalato una maglietta dell’Inter di Adriano, mentre a Ilala ho donato una felpa. Quando Ilala ha liberato le capre, trascinandone una per le orecchie, abbiamo intuito che era il momento di accomiatarci. Sorrisi e ringraziamenti, la speranza è che possano continuare a vivere come desiderano.
Tornando sulla strada principale, più a nord ci siamo fermati davanti a una pompad’acqua dove abbiamo conosciuto il marito di Ilala, mentre rientrando a Opuwo abbiamo incrociato un nugolo di bambini, su tre asinelli, che hanno svuotato di dolci il fuoristrada e una giovane mamma che aveva in mano una bambola artigianale che riproduceva una donna himba. Avrei voluto comprarla per due euro, ma era molto delicata, si sarebbe rovinata e così ho rinunciato a malincuore. Abbiamo riaccompagnato a casa la guida che ci ha parlato di come nemmeno la Namibia sia un’isola felice nel panorama africano in quanto l’etnia Owambo, la più numerosa del Paese, monopolizza il governo e discrimina la minoranza.
La guida abitava in una baracca ed era preoccupata per la figlioletta di un anno che giaceva febbricitante in terra sotto una coperta ed era stata già visitata all’ospedale. Voleva che Sivan, studentessa di medicina, confermasse la diagnosi, un virus intestinale. L’israeliana ha tranquillizzato l’uomo e la sua giovane compagna, non era nulla di grave. E così ci siamo salutati con un pensiero in meno.Marco Sanfilippo
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