La visita di Aung San Suu Kyi in Italia è stata un successo personale e politico. Roma, Torino, Bologna e Parma le città toccate dal premio Nobel per la pace, a cui Luc Besson ha dedicato uno dei suoi film più brutti della sua carriera. Noi l’abbiamo intervistata.
Dal 2010 il Myanmar (ex Birmania) sta subendo un radicale processo di trasformazione politico e sociale, eppure lei continua ad insistere che esiste ancora il pericolo di un rigurgito dittatoriale. Quale sono gli ostacoli da rimuovere?
«Occorre che le regole vengano fatte rispettare. Mi sentirò sicura che le riforme saranno definitive solo quando i militari dimostreranno di essere totalmente a favore del processo democratico. Non abbiamo un potere giudiziario indipendente e la Costituzione approvata nel 2008 permette, in casi estremi, che il comandante delle forze armate avochi su di sé i poteri del governo».
Lei ha chiesto l’emendamento dell’articolo che vieta a chi ha parenti con passaporto straniero, quindi anche a lei, di candidarsi alla carica di presidente. Posto che la rivendicazione è legittima, non potrebbe sembrare una richiesta troppo interessata?
«No, non è per mio tornaconto che chiedo l’emendamento. Lo chiedo perché non credo che, in un Paese democratico, la costituzione debba essere scritta con la sola e precisa intenzione di bandire dalla vita politica una persona. Sono una politica ed ho, come tutti i politici, un obiettivo da raggiungere: se il mio obiettivo è quello di diventare presidente della Birmania, sarà il popolo a deciderlo perché in una democrazia è il popolo a stabilire chi sarà a rappresentarlo. L’emendamento è, inoltre, al terzo posto nella scala delle priorità che vede al primo posto il rispetto delle regole di cui parlavo prima, e al secondo la fine della guerra civile».
Come pensa di far cessare la guerra, anzi, le guerre civili, alcune delle quali durano da settant’anni?
«Negoziando e raggiungendo un compromesso. Se tutte le parti in causa pretendono di ottenere il 100% di ciò che chiedono, allora tutti perderemo. Durante il regime militare abbiamo perso la cultura del dialogo e del compromesso. Io e il mio partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, siamo sempre stati a favore di uno Stato federalista dove il potere è diviso democraticamente tra il governo nazionale e le amministrazioni locali».
Così, però, si rischia di disintegrare il Myanmar
«Il pericolo di secessione esiste, ma le minoranze etniche in Birmania hanno sempre affermato di non voler l’indipendenza, ma solo il diritto di esistere come nazioni etniche».
Lei ha sempre affermato di avere forti simpatie per i militari e per le forze armate che, oltre ad essere l’unica forza capace di tenere unita la nazione, sono anche state fondate da suo padre, il generale Aung San. Queste sue affermazioni hanno disorientato non poco chi, negli anni passati, aveva appoggiato la sua causa.
«Lo so: molte persone inorridiscono quando mi sentono affermare questa simpatia. Mi spiace deluderle, ma significa che non mi hanno mai ascoltata nel passato. Ho molto rispetto per alcuni generali e, in senso lato, per tutte le persone che indossano una divisa. Mio padre è stato ucciso quando avevo due anni, quindi non ricordo molto di lui, ma quando guardo le fotografie lo vedo sempre in uniforme militare. E’ forse per questo che considero i militari come persone gentili ed amabili. Non tutti, naturalmente, e fino ad un certo punto…».
C’è anche chi la critica per aver cambiato atteggiamento e posizione politica rispetto a ciò che diceva quando era agli arresti domiciliari
«Come dicevo prima, dobbiamo imparare l’arte del compromesso. I miei principi non sono rigidi ed io sono sempre disponibile a fare dei compromessi, se questi servono a rafforzare la democrazia. Non possiamo dipendere sempre dall’appoggio esterno per raggiungere i nostri obiettivi. Ho apprezzato e ringrazio i nostri amici all’estero per tutto quello che hanno fatto nel passato, ma è arrivato il momento di prendere in mano il nostro destino ed assumerci le responsabilità».
Assumere le responsabilità significa anche prendere posizioni nette per difendere i diritti delle minoranze. Lei è stata criticata duramente per non aver criticato apertamente le violenze perpetrate dai buddisti ai danni della minoranza musulmana del Myanmar.
«Non penso che una semplice dichiarazione di condanna possa portare alla soluzione del problema. Se così fosse, l’avrei già espressa. Molte volte condannare ciò che fa un popolo peggiora la situazione perché porta a generare altra violenza. E la violenza si abbatterebbe sulle persone, non su di me o su chi ha condannato a parole l’uso della forza».
Ma è un fatto che i musulmani sono vittime di violenze inaudite. Come pensa di poter risolvere il conflitto etnico-religioso?
«Non lo chiamerei conflitto etnico, ma solo un conflitto generato dalla paura che è causa di decenni di terrore e di pessima gestione delle frontiere. Per anni noi dell’Nld abbiamo chiesto al governo di controllare il confine con il Bangladesh, un confine troppo poroso e poco controllato. Ed oggi, proprio lungo quel confine abbiamo un problema di immigrazione illegale dal Bangladesh. Noi chiediamo che il governo metta in pratica la legge sulla cittadinanza e ponga termine a questa immigrazione illegale, altrimenti il problema non verrà mai risolto».
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