Cronaca
Giovedì 16 Aprile 2020
La lettera di 50 medici: «Per ripartire
dobbiamo tornare a fare i medici»
Hanno combattuto il virus negli ospedali dove lavorano, alcuni di loro si sono ammalati, molti sono stati intervistati. A quasi due mesi dallo scoppio della pandemia in Lombardia, un gruppo di medici di diverse specialità e di centri in tutta Italia non ci sta a farsi tirare per la giacca e avverte: «Per ripartire dobbiamo tornare a fare i medici, a ragionare con metodo scientifico per partire da dati certi e proporre soluzioni praticabili. E chi fa informazione ha la grande responsabilità di aiutarci».
Riceviamo e pubblichiamo la lettera aperta agli italiani di cinquanta medici italiani, anche dell’ospedale Papa Giovanni XXIII, sull’emergenza coronavirus e il modo in cui è stata affrontata.
Punti di discussione sulle distonie comunicative e interpretative della pandemia Covid
1. Il bisogno «sociale» di additare un responsabile per ogni evento. È quasi automatico, prima ancora di cercare di documentare, analizzare ed interpretare i fenomeni, dare via alla competizione per la ricerca del(i) colpevole(i). E, di solito, è una tentazione molto veloce in tempi e modi. Ma siamo certi che sia questa la metodologia corretta per trarre conclusioni su eventi così «nuovi e destabilizzanti»? Questo metodo, di fatto, si discosta dal consueto rigore con cui si analizza qualunque «novità» in campo scientifico. Perché tale approccio rigoroso non deve valere in questa circostanza? Perché troppi cadono nella trappola della “ricerca del colpevole” quando la partita è ancora in svolgimento?
2. Trarre conclusioni a «partita» in corso. Questa è certamente la cifra distintiva dell’approccio generale (addetti ai lavori, istituzioni, politici, popolazione generale, media) che abbiamo osservato fin dall’inizio di quella che poi si è rivelata una «pandemia». Pandemia che MAI, nei nostri tempi, si era manifestata con questa virulenza e imprevedibilità
a. All’inizio come fingere di dimenticare lo sguardo tra lo stupito e l’affascinato di gran parte del mondo, (due mesi fa, non decadi fa), sulle centinaia di scavatrici intente, in Cina, a spianare lo spazio per la rapida costruzione ex novo di un ospedale dedicato COVID-19, o come pure le rigidissime e militaresche regole di isolamento sociale, che non giudicavamo adatte a società di stampo democratico. Ma soprattutto, prevaleva l’occhio di un osservatore, l’occhio di qualcuno che non riteneva sarebbe stato “un nostro problema”.
b. Neppure quando la Corea ha reagito persino più aggressivamente in termini di isolamento sociale, abbiamo pensato che fosse davvero un nostro problema. Poi è stata la volta dell’Iran, con evidenze di devastazioni mediche e sociale davvero preoccupanti. Ma comunque «non era un nostro problema».
c. È stato solo quando, a fine gennaio, l’OMS ha allertato il mondo sul fatto che il Coronavirus rappresentava un’Emergenza Sanitaria di Interesse Internazionale (PHEIC), che si è cominciato a pensare che eravamo davanti a qualcosa di cui, volenti o nolenti, ci si sarebbe dovuti fare carico.
d. Quindi l’Italia. Con multipli focolai (ma solo poi riconosciuti non come i primi in Europa) che hanno subito allertato l’attenzione: gran parte dell’Europa e la CNN, hanno quasi, da subito, concluso che fosse il nostro paese la prima causa di diffusione della epidemia in Europa. L’impennata clamorosa di casi, di casi severi, di persone che morivano, l’intasamento repentino degli ospedali di una zona concentrata del paese, ha spinto molti, troppi, prima che a chiedersi «cosa» e «come», a domandarsi «per colpa di chi». E così ecco il fiorire di teorie che di volta in volta imputavano il disastro all’inadeguatezza del nostro sistema sanitario e/o all’improvvido impoverimento negli anni del nostro sistema sanitario nazionale, oppure giocavano con uscite di dubbio gusto sull’equivoca sbandierata qualità della di una regione piuttosto dell’altre. O, ancora, nel voler ripensare a modificare radicalmente la “centratura” dei riferimenti in sanità: decentrare è meglio di accentrare (concetto alquanto condivisibile, ma decisamente povero di supporto nella realtà di emergenza)
e. Poi l’evidenza è esplosa: prima la Spagna, che, dovutasi confrontare con un focolaio avviato con una latenza di circa 15 giorni rispetto all’Italia, nello stesso lasso di tempo è stata persino più sovrastata di noi; seguita a ruota da Francia, Germania ed Inghilterra le cui impennate sono attualmente ancora in piena corsa senza lasciar prevedere dove si collocherà il famoso «plateau»; infine gli Stati Uniti con contagi e morti che in soli 15 giorni hanno più che triplicato i dati cinesi e più che doppiato quelli europei, con un trend che ha già clamorosamente superato le nostre già clamorose cifre.
f. E a questo punto è chiaro anche ai più restii (Turchia, Brasile tra gli altri) che il «problema è chiaramente mondiale».
3. Trarre rapide conclusioni poggianti su fragili fondamenta.
Il primo clamoroso errore di attribuzione di responsabilità è l’aver immediatamente associato la numerosità dei contagiati di un’area, come metro di paragone della qualità del sistema sanitario dell’area stessa (come se il SARS-COV-2 avesse contezza e rispetto di confini amministrativi locali, regionali, nazionali, mondiali). Il fenomeno “numero di positivi” dipende da fattori interconnessi e non sempre identificabili:
a. Il primo fattore è il numero di test che sono stati effettuati. Ora, nei piccoli numeri è certamente un fattore concreto e reale. Ma su larga scala, troppo spesso ciò che è giusto fare non è semplicemente sostenibile: le risorse tecniche e di materiali non sono state e non saranno mai sufficienti ad eseguire test a tutta la popolazione. Nell’immediato, mentre è stata in corso la massima emergenza, non sono stati disponibili neanche test sufficienti per «selezionati» campioni di popolazione. Ricordandoci che in una pandemia ogni negativo al test, deve esservi sottoposto periodicamente e ripetutamente: non c’è un modello di automazione che consenta tali milioni di test e non c’è la produzione di reagenti per sostenerli. La tecnologia ci sta solo recentemente mettendo a disposizione dei test rapidi, più adeguati: ma ancora una volta, la effettiva disponibilità capillare e la sostenibilità economica devono essere attentamente considerate. Ora, dire che si devono fare tamponi a tutti, è certamente di facile comprensione e raccoglie ovvi consensi. Ma forse si dovrebbe raccontare la verità, e cioè che i test per tutti non ci sono (e dubitiamo ci saranno mai), né risorse organizzative ed economiche per farli. Pertanto dovranno essere considerate strategie «progressive», mirate a campioni della popolazione….
b. Numero di casi: a fronte di focolai che si susseguono con drammatica periodicità, ma caratterizzati da imprevedibili modalità e luoghi (in Italia, ma anche nel mondo), estrapolare gli ipotetici numeri «reali» di contagiati, appare un esercizio di scarsa utilità pratica. Infatti, parlare di qualità dei modelli sanitari, basandosi sul numero di casi o sul numero di ricoveri o sul numero di decessi, allontana dal cuore vero del problema: i luoghi dove scoppia un focolaio presentano differenze in termini di densità di popolazione, di livello di industrializzazione, di relazioni commerciali internazionali, di presenza di interconnessioni ferroviarie, autostradali o aeroportuali, di fattori orografici che possono facilitare o rendere complesso l’isolamento fattivo ed infine di differenze culturali (il fatto di stringersi la mano, la promiscuità fisica come socialmente accettata…) e sociodemografiche (numero di componenti famigliari, ossia persone che vivono sotto lo stesso tetto…)
c. Tasso di letalità. La notizia che ha tenuto e che sta ancora tenendo banco è l’oramai famoso concetto di letalità del SARS-COV-2. La definizione corretta è: «la proporzione, in percentuale, di decessi per una specifica malattia sul totale dei soggetti ammalati in un determinato arco temporale». Questo insistente riferimento a numeri che, per definizione, non possono essere calcolabili né tantomeno comparabili tra paesi o zone con politiche di test o di report dei dati clamorosamente differenti, rende ragione di numerose discussioni su una «presunta» maggior letalità in Italia: in determinare aree di fatto si sono eseguiti dei test solo nei pazienti che accedevano alle strutture ospedaliere; come si può immaginare sia possibile una corretta valutazione della percentuale di letalità?
d. Altro aspetto che è stato oggetto di ardite comparazioni è «l’eccessivo tasso di ricoveri, che avrebbe finito per peggiorare cose». La gestione domiciliare, ove possibile, garantirebbe migliori risultati nel contenimento. Concetto di sanità decentrata rispetto a ospedalizzazione centralizzata è ancora una volta condivisibile nei suoi presupposti teorici. Ma poi c’è la realtà: nelle zone ad alta endemia, circa il 20% dei pazienti che si sono presentati in PS non sono sopravvissuti, ben oltre il 50% ha necessitato di supporto ventilatorio anche aggressivo e “solo” il 20-30% era in realtà dimissibile, seppur con una polmonite. Davvero qualcuno ritiene ancora che, con questi numeri, queste persone si sarebbero potute tenere «a casa»? Migliaia e più pazienti rappresentano un dramma gestionale per qualunque sistema sanitario del mondo (e stiamo vedendo ora l’immensità del problema a New York, che ha numeri comparabili a tutta l’Italia intera).
e. Sul numero di «guariti» valgono le stesse considerazioni. Senza un denominatore adeguato, si può solo stimare la percentuale di guariti tra coloro che sono stati ricoverati (ovviamente stimando inadeguatamente la quota di chi non ce l’ha fatta ad arrivare in ospedale).
f. Un’altra voce ricorrente è che l’Italia avrebbe pagato un prezzo alto per la carenza di posti in Unità intensiva: se questo fosse vero, allora andrebbe spiegato perché la regione italiana che, non solo aveva il maggior numero di letti di unità intensive, ma che lo ha incrementato di quasi il 40-50% entro 2-3 settimane, sia ancora una volta la più colpita… o si tratta ancora una volta di “dimensione del focolaio” e caratteristiche dell’area in cui si attiva?
4. Apprendere è un processo lento e metodico, concetto che si scontra con la rapidità di questa pandemia e con la ricerca di rimedi. Apprendere da eventi inimmaginabili e portentosi come questo, non può non essere parte di un processo complesso e faticoso: richiede, osservazione, raccolta, misurazione, descrizione, analisi e valutazione. E dopo tale faticoso processo, in genere, si ricomincia daccapo. Perché alla fine, solo i numeri (“corretti”), saranno ciò che ci aiuterà davvero ad imparare.
5. Se qualcuno ritiene ancora che la soluzione di una pandemia di questa portata, possa poggiare principalmente sugli aspetti “tecnici, sanitari o farmacologici”, vive certamente in una falsa illusione. Se viceversa, si accetta pienamente il principio che la “vera” soluzione è socio-epidemiologica, cioè basata sull’isolamento personale (e non “familiare”) allora la strada appare percorribile. Ma questo implica il credere fermamente nel principio che la “COMUNICAZIONE” sia pienamente parte del processo di gestione e cura di questa pandemia, e agire fermamente in tale direzione.
6.È importante che tutti gli attori della comunità scientifica evitino in questa fase atteggiamenti polemici e contribuiscano invece all’idea dell’importante contributo che la comunità medica e scientifica sta dando e darà in futuro sulla risoluzione di questa pandemia. L’unico modo di ripartire – detto sommessamente, ma chiaramente – sarà nel ri-attribuire alla classe medica e scientifica il ruolo perso nella società pre-Covid-19. La medicina e i medici devono riappropriarsi non già del lavoro e dei “privilegi” del ruolo, ma delle strategie concrete e dell’obiettivo di salute e benessere che tutti gli Stati riconoscono come un diritto, riacquistando un potere di negoziazione e una autorevolezza perduta e troppe volte barattata per qualche vantaggio comunicativo
Consigli per tutti noi:
· Evitiamo conclusioni affrettate e basate su dati epidemiologici incompleti. Rimandiamo la disamina scientifica di quanto accaduto a una fase successiva, in un’ottica di miglioramento e di miglior bilanciamento ospedale/territorio
· Abbassiamo i toni ed evitiamo i personalismi
· Operiamo, già da oggi, affinché la medicina e i medici sappiano riconquistare un ruolo attivo nelle strategie sanitarie volte a garantire salute e benessere
.Stefano Fagiuoli, Bergamo
Claudio Puoti, Roma
Abenavoli Ludovico, Catanzaro
Amodio Piero, Padova
Andorno Enzo, Genova
Andreone Pietro, Bologna
Andriulli Angel, San Giovanni Rotondo
Ascione Antonio, Napoli
Attili Adolfo Francesco, Roma
Ballardini Giorgio, Rimini
Balsano Clara, Roma
Bellentani Stefano, Locarno (CH)
Bruno Raffaele, Pavia
Cammà Calogero, Palermo
Cerasari Giuseppe, Roma
Cosentini Roberto, Bergamo
Craxì Antonio, Palermo
Di Marco Vito, Palermo
Elmo Maria Giuseppa, Roma
Farinati Fabio, Padova
Frieri Giuseppe, L’Aquila
Gaeta Giovanbattista, Napoli
Gasbarrini Antonio, Roma
Grieco Antonio, Roma
Grossi Paolo Antonio, Varese
Leandro Gioacchino, Castellana Grotte
Lorenzini Stefania, Bologna
Lorini Luca, Bergamo
Marignani Massimo, Roma
Marra Fabio, Firenze
Merli Manuela, Roma
Morelli Cristina, Bologna
Morisco Filomena, Napoli
Negro Francesco, Ginevra (CH)
Persico Marcello, Salerno
Picardi Antonio, Roma
Pirisi Mario, Novara
Pollicino Teresa, Messina
Puoti Massimo, Milano
Rizzardini Giuliano, Milano
Romagnoli Renato, Torino
Rosina Floriano, Torino
Rossi Giorgio, Milano
Senni Michele, Bergamo
Svegliati Baroni Gianluca, Ancona
Taliani Gloria, Roma
Trevisani Franco, Bologna
Vespasiani Gentilucci Umberto, Roma
Volpes Riccardo, Palermo
Zignego Anna Linda, Firenze
Zuin Massimo, Milano
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