ADDIS ABEBA (Etiopia) - Scusate il ritardo, ma il blackout è stato inevitabile. No, fortunatamente non siamo morti. È che il Sudan si è rivelato una tappa durissima, tra problemi logistici, organizzativi, burocratici e politici, disavventure varie per il fuoristrada e scarsità di Internet point. Siamo stati in grado di scrivere soltanto un articolo urgente per il giornale da Khartoum, capitale del Sudan, e per il resto abbiamo quasi sempre guidato a tappe forzate su strade impossibili mangiando e dormendo praticamente mai, anche perché dovevamo recuperare un amico all’aeroporto di Addis Abeba, in Etiopia, l’8 agosto. E l’unica sera in cui avremmo potuto aggiornarvi siamo crollati letteralmente per la stanchezza accumulata.
Ora ci siamo concessi due sacrosanti giorni di riposo nel lusso (quando ci vuole ci vuole) dell’hotel Hilton di Addis Abeba, da dove vi stiamo scrivendo.
Eravamo rimasti all’arrivo notturno al Cairo, in Egitto. La mattina dopo abbiamo scoperto che il Cosmopolitan Hotel (25 euro), in stile art nouveau, è il prediletto dalla Lonely Planet. In effetti, è un albergo ricco di fascino, nonostante sia in decadenza, con un’atmosfera vagamente coloniale, i camerieri in livrea rossa, il vecchio ascensore Schindler che si è bloccato mentre salivamo, la sfilza di tappeti, metà dei quali arrotolati sui piani. Dopo il trauma della sera precedente, abbiamo deciso di usare il taxi nella metropoli egiziana che, nella nostra personalissima classifica delle capitali con il traffico più intasato del mondo, sta in prima fila con Bangkok e Teheran. Non è che sia stata un’esperienza con minori brividi. Il taxista, al volante di una carcassa, s’incuneava come un folle nel minimo spazio libero sfidando le leggi della fisica. Eppure ci siamo salvati.
Prima tappa le piramidi di Giza. Sono le uniche meraviglie del mondo antico ad essere sopravvissute all’inesorabile legge del tempo, sono in piedi da più di 4.500 anni, ma sinceramente non ci hanno impressionato. Non sappiamo perché, non sono mai state un nostro pallino, nonostante siano un prodigio della tecnica; le abbiamo ammirate e nulla più.
Respinti con perdite ragionevoli seccatori e venditori che circolano tra le piramidi e dato un extra al taxista che ci ha atteso un’ora in più di quanto concordato, siamo entrati al Nile Hilton per cambiare i travelers cheques e alle 15,21, dopo undici giorni di astinenza (e una Beck’s non alcolica tracannata a Tripoli, in Libia), ci siamo finalmente scolati una birra al bar che dà sul giardino dell’hotel: una Stella local da 60 cl non entusiasmante, ma ghiacciata.
Abbiamo di nuovo rivisto Hani Hanna, il corrispondente di Avventure nel mondo, che ci ha dato una mano per organizzare i restanti giorni in Egitto e soprattutto per prenotare il traghetto per il Sudan. Hani è cristiano ortodosso, lavora come un matto (ha soltanto una settimana di ferie all’anno) e non è mai stato in Italia. Della chiacchierata al bar ci ha colpito quando ha parlato della città dei morti, cioè dei 50.000 poveri che vivono in un’area non utilizzata del cimitero attrezzata con vari servizi per un’esistenza sopportabile.
Con lui abbiamo fumato la sheesha, ovvero la versione egiziana del narghilè: una lunga pipa ad acqua con il tabacco al sapore di menta. La serata l’abbiamo consumata in un Internet point fino a quando, all’una di notte, ci hanno sbattuto fuori.
Il giorno dopo tappa inevitabile al museo Egizio, che sembrava un bunker: soldati e poliziotti, controllo del passaporto, doppio metal detector. Entrata gratis come giornalisti su dritta di Hani. Piano terra deludente con reperti pure pregevoli esposti quasi alla rinfusa e scarse indicazioni. Sull’enorme colosso di Amenhotep III e Teye c’è chi ha addirittura inciso il suo nome. Scenetta formidabile: una donna islamica con il look più rigoroso possibile (si vedevano a malapena gli occhi nel 99% di nero) teneva per mano il figlioletto che sfoggiava un costume carnevalesco da Uomo ragno. Come dire due mondi che convivono.
Sbalorditivo il primo piano con il tesoro di Tutankhamen e la sala delle mummie reali. Qui abbiamo intuito la grandezza degli antichi egiziani. Tutankhamen è stato un faraone insignificante nella storia dell’Egitto, ma è diventato famoso perché è l’unico di cui sia stato recuperato intatto il tesoro. Bellissimo il trono a forma di leone in legno e lamina d’oro, entusiasmanti la maschera funeraria (11 kg d’oro massiccio) che copriva la testa della mummia e il sarcofago più piccolo (110 kg sempre di puro metallo pregiato). Nella sala delle mummie reali sono conservati, in singole teche e alla temperatura di 22 gradi, i resti di dodici faraoni e regine. Non si possono assolutamente scattare fotografie ma molti usano la fotocamera del telefonino. Impressionante il viso sfregiato di Seqenenra II, che fu ucciso; Tuthmosi IV ci ha suscitato un moto d’invidia: dopo più di 3.000 anni conserva ancora i suoi capelli biondi, mentre noi...
La serata è stata dedicata alla visita del quartiere islamico di Al-Azhar e Khan Al-Khaliki con i suoi bazar luccicanti e con la fermata obbligatoria al Fishawi’s coffeehouse: è un locale famoso, arredato in legno e con una miriade di specchi, praticamente immerso nel mercato e aperto 24 ore al giorno. Mentre bevevamo una Pepsi abbiamo intavolato un’estenuante contrattazione con un adolescente per tre portafogli di pelle di cammello (così pare) pagati circa 5 euro. Sulla piazza di una moschea c’erano bambini che giocavano a palla a mezzanotte: comprensibile, era un giovedì, un giorno prefestivo. In strada, sulla via del ritorno, siamo incappati un poliziotto che ci ha voluto scortare in albergo per scroccarci la mancia, ma ha ricevuto un bel rifiuto. In definitiva Il Cairo ci ha conquistato, se ci scordiamo il traffico e i procacciatori di affari. È una città, con innumerevoli angoli suggestivi da scoprire, in cui il molto vecchio e il nuovo si mescolano in un cocktail intrigante senza annullarsi. Ci ritorneremo.
(10/08/2005)
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