ARUSHA (Tanzania) - Stavamo entrando in Sudan nell’ultima puntata. ma ci scuserete se - prima di continuare con il racconto della montagna di arretrati - con un balzo di migliaia di chilometri ci proiettiamo in Tanzania sull’attualità, ovvero sul Kilimangiaro, la montagna vera.
La scalata della più alta vetta africana era uno dei nostri sogni, uno dei principali obiettivi del giro del mondo, ed è stato centrato: il 21 agosto alle 5,38 del mattino abbiamo abbracciato i compagni d’avventura e accarezzato i cartelli in legno che coincidono con l’Uhuru Peak a 5.895 metri. Esausti, semicongelati (12 gradi sottozero e vento gelido) ma felici. Una notte di sofferenza, a braccetto con la luna piena, per un’alba che non scorderemo.
È stata una mezza impresa perché, se è indiscutibile che il Kilimangiaro è un vulcano con nessuna difficoltà tecnica da superare (più che una scalata è una camminata, lunga 61 chilometri), è altrettanto vero che non siamo appassionati di montagna e che erano anni che non sfidavamo noi stessi in un trekking (l’ultimo nel 1999: Roraima in Venezuela). Il temuto mal d’altitudine, determinato dalla rarefazione dell’ossigeno, non si è materializzato e l’unica scoria del trekking è stata rappresentata dai tre giorni di blackout dei muscoli delle gambe a causa del tour de force dell’ultimo giorno, in cui in 5 ore di ascesa notturna abbiamo annullato i 1.300 metri di dislivello che separano il Barafu Camp a quota 4.600 dalla vetta, mentre in 6 ore e mezza (dalle 7 alle 8,30 e dalle 11 alla 16) siamo scesi di 4.100 metri atterrando ai 1.800 metri del Machame Gate.
Il trekking era di sei giorni, ma l’abbiamo ridotto a cinque condensando in una giorno la discesa. La Machame route sta scalzando dalle preferenze la Marangu route perché è più panoramica (non attacca direttamente la vetta, ma aggira il vulcano sul versante sud est) e favorisce un maggiore acclimatamento, ma le tappe non ci sono sembrate equilibrate, considerato che per due giorni di fila abbiamo camminato soltanto per 3 ore e mezza (dai 1.800 ai 3.000 metri del Machame Camp e dai 3.000 ai 3.800 metri dello Shira Camp), il terzo giorno siamo saliti ai 4.600 metri del Lava Tower (qui a lato) scendendo però ancora a 3.950 (Barranco Camp; 6 ore con un’arrampicata sulla parete di lava per allenamento) e che il quarto giorno (da 3.950 a 4.600 metri con ulteriori saliscendi, 5 ore e mezza) è stato un pesante approccio al massacrante strappo decisivo. In totale abbiamo superato quasi 5.000 metri di dislivello in salita.
Ci eravamo preparati con scrupolo, sia mentalmente, sia come attrezzatura (unico neo la tenda estiva), mentre sul piano fisico ci preoccupava in primis l’aver risentito dei 5.000 metri in Perù e Bolivia nel 1997 (quando però bastò un tè con foglie di coca per sventare la crisi) e in second’ordine il ginocchio destro scricchiolante. Anche il nostro amico Marco, che si era unito a noi in Etiopia, non aveva esperienza di montagna e non aveva mai superato alte quote.
A sostenerci uno staff molto professionale di Parks Adventure indicatoci da Avventure nel mondo e composto da una guida (obbligatoria), ovvero Ambrose, di 26 anni (sotto nella foto scattata in vetta), due suoi aiutanti, un cuoco impareggiabile e quattro portatori che ci hanno sollevato dal peso dello zaino più pesante. Il trekking ci è costato 750 euro per persona (eravamo solo noi due), all included (compreso il trasfermento da e per Arusha), una cifra non esagerata se si pensa che più di un terzo se ne va per l’ingresso al parco.
Lui, il «Kibo», nomignolo del Kilimangiaro, ha giocato a nascondino. In quattro giorni l’abbiamo potuto ammirare raramente perché era quasi sempre avvolto dalle nuvole, ma quando la luna piena (un colpo di fortuna, non era stata calcolata) l’ha illuminato nella magica notte, è stato uno spettacolo indescrivibile. Tale da ripagare quattro giorni di grigiore assoluto, di cielo imbronciato, pioggerellina, forte foschia, addirittura nebbia padana.
Abbiamo camminato per ore in un’atmosfera irreale, non si vedeva nulla né sopra, né sotto, sembrava di vagare nel vuoto con una destinazione ignota senza sapere nemmeno la base di partenza e il perché. Una condizione che a pensarci non è così irreale: dove andiamo e da dove veniamo sono interrogativi che assillano l’uomo da millenni.
Dalla foresta pluviale alla brughiera alpina, dalle vallate ricche di acqua con i seneci, le piante simbolo del Kilimangiaro, e le pietre vulcaniche, all’arido paesaggio lunare, senza neve, delle due vette gemelle: il Kibo, che si erge al centro del massiccio e forma un cratere ripiegandosi verso l’interno, il cui punto più alto è l’Uhuru Peak, la nostra meta, e il Mawenzi, più basso a oriente.
Un grigiore meteorologico, dicevamo, infranto dalla sofferta, magica notte. Cena alle 17,30 (più o meno il menù consueto: brodino di pollo per scaldarsi, carne con vegetali, carboidrati sottoforma di spaghetti, bevande calde), partita a carte in tenda per ingannare l’attesa, tre ore di sonno e sveglia a mezzanotte con zero gradi di temperatura. Imbacuccati come se fossimo destinati in Antartide (calzamaglia, jeans e pantavento, maglietta termica, due pile e giacca a vento, guanti e berretta di lana), abbiamo bevuto un tè bollente con tre biscotti e ci siamo avviati alle 00,34, armati di borraccia con un litro e mezzo di acqua, barrette energetiche e pila frontale che non abbiamo spento, nonostante la luna illuminasse il sentiero.
Una lenta fila indiana luminosa in versione mondiale (c’erano europei, ma quasi nessun italiano, australiani, statunitensi, canadesi, sudafricani) che arrancava sulla ghiaia, fondo ingannevole che raddoppiava la fatica. Ci siamo imposti di non continuare a scrutare la salita che ci attendeva, né di controllare ora e altitudine sull’orologio per non stressarci, camminavamo soltanto sulle orme della guida con il viso rivolto verso terra pensando talvolta al motto caro a noi sfigati interisti: non mollare mai.
Era la notte della Supercoppa firmata Veron, ma non lo sapevamo ancora. Andatura sostenuta, persino esagerata, tanto che ci siamo dovuti fermare due volte perché il nostro amico aveva lo stomaco bloccato. La crisi è stata però brillantemente superata. Il muro in verticale che ci ha condotto a Stella Point, sul bordo del cratere, sembrava fosse infinito, ma a quota 5.732 (una sorpresa impagabile leggere su un cartello l’altezza di Stella Point: il nostro altimetro segnava 150 metri in meno) abbiamo intuito che ormai, nonostante sintomi di diarrea, il tentativo sarebbe stato coronato da successo.
Il nostro amico, intanto, come in preda a una «strana euforia, ha forzato il passo trascinandoci all’Uhuru Peak in mezzora, primi in assoluto della mattinata. Freddo e vento micidiali, cinque minuti per scattare le foto ricordo ed ecco il vero spettacolo: il sorgere del sole a est dell’Uhuru Peak. Il cielo si è trasformato in una tavolozza infinita di colori dall’orizzonte allo zenit sopra di noi, il ghiacciato a ovest scintillava di bianco,
Durante la discesa abbiamo penato più che in salita perché le gambe erano diventate pesantissime, quasi incontrollabili, ma avevamo il sorriso sulle labbra e, al Machame Gate, in mano il «certificato» della conquista numero 76.287. A eccezione dei muscoli doloranti, non conosciamo ulteriori effetti collaterali, anche se il nostro amico, durante il safari del giorno dopo, ha instaurato un dialogo costruttivo con gli uccellini del parco...
Durante la fase oscura del trekking avrebbe voluto domandare a uno psicologo perché fosse lì a scarpinare invece di bearsi su un’isola carabica... E pure noi siamo stati sfiorati dal dilemma...
(26/08/2005)
Marco Sanfilippo
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