«Il Gleno fu il nostro Titanic»
Il racconto di Don Spada nel 1973

Il 29 novembre 1973, in prima pagina, il nostro giornale presentava l’editoriale di don Andrea Spada, storico direttore, che ricordava i cinquant’anni della sciagura del Gleno. Don Spada era nato a Schilpario, ultimo paese della Valle di Scalve, e ricordava bene quei giorni terribili.

Il 29 novembre 1973, in prima pagina, il nostro giornale presentava l’editoriale di don Andrea Spada, storico direttore, che ricordava i cinquant’anni della sciagura. Don Spada era nato a Schilpario, ultimo paese della Valle di Scalve, e ricordava bene quei giorni terribili. Un articolo che è un ricordo, ma anche un’analisi lucida di quell’evento, delle responsabilità che portarono al disastro. Riproponiamo la sua riflessione. Da quella tragedia - avvenuta il 1° dicembre del 1923 - sono trascorsi ormai novant’anni.

di Andrea Spada

Sabato questo, alle ore 7 del mattino, saranno esattamente cinquant’anni da uno dei più tremendi disastri che abbiano colpito l’Italia e la terra bergamasca, il crollo della diga del Gleno. Trecentotrentadue morti, paesi sradicati dalla furia delle acque, in Val di Scalve, prima di incanalarsi ruggendo nelle forre della Via Mala, e nella bassa Val Camonica prima di finire nel lago. Fu un po’ come il disastro del Titanic, a quei tempi, l’improvvisa umiliazione per la baldanza del progresso tecnico che cominciava a esplodere.

La diga sembrava un’opera di superba perfezione e di ardimento tecnico, appunto come il famoso tragico transatlantico. Costruita ad archi multipli, stupenda a guardarsi così sospesa sull’alto della montagna come un arcobaleno possente di cemento, elegante come la fiancata di una cattedrale, una enorme nave piena di un mare d’acqua.

Ma si sapeva che il bellissimo colosso aveva i piedi d’argilla, che la sua potenza era stata minata dalla fretta, dalla babele dei linguaggi tecnici, dall’apporto del lavoro umano usato come gli schiavi per le piramidi. Era stata costruita a cottimo, e la gran parte degli operai stettero lassù mesi e mesi lavorando senza soste anche alla domenica. Ricordiamo che un parroco della valle si era alzato ad ammonire che non si può abbrutire l’uomo e poi chiedergli coscienza e senso di responsabilità. Così il processo rivelò che nelle gettate del cemento erano state trovate carriole e cassette e non era un mistero che la diga grondava dalle sue pareti e sudava tutta da pori misteriosi.

Questi erano i discorsi della gente della valle, che ricordiamo benissimo, ma la «maestà» del progresso non aveva incluso, evidentemente, tra le sue prospettive gli aspetti morali del lavoro dell’uomo, le considerazioni umane. In fatto di imprevidenza, di leggerezza, c’è poco anche da rimpiangere quei tempi.

Era piovuto da diversi giorni, e quella mattina, la gente della valle che usciva dalla prima Messa sentì l’aria rabbrividire per un improvviso freddo, e avvertì un boato sordo, lungo e lacerante. La diga era crollata. Centrali, ponti, case erano scomparse. In una casa rimasta in piedi al Dezzo decine di bambini giacevano sul pavimento, raccolti in un mucchio, uccisi forse soltanto dallo spostamento dell’aria, perché pareva dormissero. Qualche superstite che si aggirava tra le acque che muggivano ancora, tra la melma e i detriti, cercando impazzita i figli, la madre, i parenti. Giornate allucinanti. Arrivarono i militari, arrivò il re, giunsero i gerarchi, i giornalisti, gente volenterosa e angosciata che scendeva dai paesi della valle, dalla Cantoniera, con cucine da campo, con tende, a cercare qualche scampato tra le macerie, a cercare parenti e amici. Alcune famiglie erano completamente scomparse.

Vennero i giorni dei tragici bilanci, delle promesse di soccorso. Tutta l’Italia, dicevano i giornali, era sgomenta e commossa. Cos’è rimasto? Un asilo e due o tre case costruite dalla città di Milano al Dezzo.

La poverissima valle ha dovuto da sola in cinquant’anni ricucire la sua spaventosa ferita, spegnere le sue lacrime, riprendere da sola a portare il fardello della sua solitudine e della sua estrema povertà. Quello che più o meno è successo dopo in tutti i disastri del nostro paese. Promesse, commozione di un momento, solidarietà di un mattino, e poi il disastro che continua nella dimenticanza degli altri.

Il processo? Una prima condanna, poi una frettolosa assoluzione come a metter fine a un capitolo fastidioso, a una fatalità, a un bisogno di non parlarne più. La diga è rimasta lassù con i suoi tronconi come un rudere di un’antica fortezza che può interessare i turisti e non certo sollevare rimorsi. Una ferita chiusa, morti sepolti, anche se a centinaia, una valle lasciata come tante alla sua tragedia lontana.

Chi si batterà il mea culpa a mezzo secolo di distanza? Chi si rende conto che un paese civile e cristiano non dovrebbe mai ritenere che le responsabilità umane possano venir prescritte dal passare del tempo e che la solidarietà verso il dolore possa essere cancellata nella coscienza di una vera comunità? La cronaca ha troppa fretta di scaricare sulla storia dei libri, delle pure statistiche numeriche delle vittime, delle commemorazioni ufficiali, dolori che dovrebbero restare vivi e ammonitori.

Allora, cinquant’anni fa, tutta l’Italia seppe che c’era al mondo una piccola valle sperduta sulle Prealpi che si chiamava Valle di Scalve. Anche se in gran parte ridotta in modo irriconoscibile dalla furia delle acque, ne intuì la povertà, la sofferenza e la lotta per vivere di sempre, la solitudine, l’asprezza. Poi il buio si è richiuso, il Gleno è rimasto un nome sinistro e lontano nella memoria di qualche vecchio che forse ricorda solo l’episodio straordinario e toccante della culla con un bambino che galleggiò sulle acque come la cesta di Mosè. Dopodomani a Vilminore, al Dezzo, a Corna di Darfo, la gente si riunirà a pregare e a ricordare. Essi non hanno dimenticato. Ma forse sentiranno proprio allora, più stringente che mai, il loro essere soli, il destino amaro della nostra montagna, l’indifferenza del mondo. Ci sarà l’Arcivescovo, con il suo cuore di padre, ci saranno le autorità, i sacerdoti. Vorremmo che almeno la terra bergamasca tornasse vicino alla sua povera tragica valle. Se non si può chiedere che l’Italia sia lassù nel ricordo di quel mattino di orrore, vicino ai suoi morti, dentro una piccola valle che fu dilaniata da uno dei più spaventosi disastri della storia, vogliamo credere che ci sarà almeno Bergamo.

O una piccola valle non può chiederlo neanche ai suoi fratelli più vicini?

© RIPRODUZIONE RISERVATA