Cronaca / Valle Cavallina
Lunedì 21 Aprile 2014
«Eleonora, un fiore di resurrezione»
La Pasqua a casa della dottoressa
Continua a commuovere il sacrificio di Eleonora Cantamessa, la ginecologa di Trescore Balneario che sette mesi fa a Chiuduno è morta investita da un’auto mentre cercava di soccorrere un ragazzo ferito in una rissa. Nella casa dei genitori il telefono squilla in continuazione.
«Guarda te cos’è sbocciato... Da una morte. Guarda te...». Il telefono squilla in continuazione a casa Cantamessa. E mamma Mariella risponde sempre. «Io non so, mi chiamano dappertutto, parrocchie, associazioni, gli Ordini dei medici, le suore di Santa Rita da Cascia, mi chiamano a parlare della Eleonora ai catechisti, ai bambini... Mi chiama tanta gente che non conosco e mi dice delle cose che non t’immagini. Che se il chicco di grano non muore, non porta frutto... E io, invece di capire, col passare del tempo sono sempre più confusa, come se fossi nelle mani di qualcun altro, più grande, che mi guida, mi manovra. E io obbedisco senza ancora capire, farmene una ragione... Quando lei è morta, quei giorni terribili in cui non capivo più nemmeno se ero al mondo, pensavo, e dicevo, ecco, adesso ne parlano tutti, fin troppo, non ne posso più... Poi tutti si dimenticheranno di lei, di noi, e resteremo soli con il suo ricordo marchiato a fuoco nel cuore. E invece...». Invece, guarda te cos’è sbocciato.
«C’è qui Pasqua e io penso. Cioè, ci penso ogni giorno e ogni notte. Ma con le feste è terribile. Quello lì era il suo posto». Mariella fa il caffè e siede al tavolo della cucina. Quattro posti: il suo, di fronte Luigi, a capotavola papà Mino e al lato opposto quello di Eleonora. Suonano al campanello, lei si affaccia sulla grande piazza dove le donne stanno posando i lumini rossi per la processione con il Cristo morto. È Venerdì Santo. Le chiedono di mettere i lumini sulle finestre mentre giù, davanti alla fontana di Igea, si va pian piano componendo la croce. Sui fornelli vanno le erbe per la torta salata. Questa cucina non ha perso niente del calore di una famiglia. Anzi. E a questo tavolo si finisce per parlare di tutto, anche di quello che magari sta lì, nascosto nel cuore da un sacco di tempo. Si comincia con l’8 settembre di Eleonora, si passa dalle scarpe e le borse, da un vestito di Pucci che ha ancora appeso il cartellino del prezzo. «Lo sanno tutti, le piaceva vestirsi bene, aveva una montagna di roba. E ne regalava anche tanta. La vedo ancora nel suo ambulatorio qui sotto, dove riceveva le pazienti. Aveva una scrivania trasparente. Lei si allungava sul tavolo verso le donne sedute dall’altra parte, loro cominciavano, si raccontavano, problemi e malattie, difficoltà e dolori, gioie e attese. Le ascoltava, poi magari guardava attraverso il vetro del tavolo e spezzava la tensione chiedendo loro dove avessero preso quelle scarpe bellissime... Non erano già più solo pazienti, erano diventate amiche. Sarà per questo che telefonano ancora tutte? Sì, sarà per questo... Io credo di sì, perché la mia Eleonora era bellissima, una spendacciona di vestiti e borse, chi non la conosceva poteva prenderla per la classica bella donna tutta superficie e apparenza. Ma chi la conosceva... Insomma, non la dimentica e io tengo vivo il suo profilo Facebook dove ogni giorno arrivano messaggi, ricordi, pensieri».
Arriva papà Mino, prende un libro e dice che va dal suo alunno: «Ciao, ci vediamo dopo». Alunno? Silvano Cantamessa è stato un insegnante di inglese per decenni qui a Trescore. «Un’amica della Ele mi ha raccontato che lei ha salvato il suo bambino quando è nato con dei problemi. Adesso che è alle medie e fa fatica, io devo salvarlo con la scuola...». Mino sorride ed esce.
Da scarpe e borse si comincia a scendere. O a salire. «Forse, dico forse perché non sono un teologo ma una semplice fedele che quella notte recitava il Rosario, mentre la mia Ele era china su quel ragazzo indiano. E poi moriva insieme a lui. Mi dico: Dio per mia figlia aveva in mente questo disegno. Che doveva morire per fiorire. Così, in un modo tanto drammatico ed eclatante. Perché altrimenti il bene e tutto il bello che lei ha fatto nella vita sarebbe rimasto, come dire, confinato a chi la conosceva. Sarebbe morto lì». Mariella porta un libro, porta foglietti e biglietti, lettere, inviti, poesie. Lei se li legge e rilegge ogni giorno, ma c’è poco tempo adesso e ne sfila uno: un libro con una dedica del presidente dell’Ordine dei medici di Brescia, consegnato ai genitori della ginecologa durante la cerimonia del giuramento dei giovani medici. C’è scritto: «Adesso tutti noi sappiamo come si fa a fare il dottore». Sì, come lei che a Chiuduno ha ordinato all’amico di fermarsi e prima ancora ha aperto la portiera ed è scesa. «I am a doctor» ha urlato nella guerriglia dell’8 settembre. Si è fatta largo e si è chinata sul giovane agonizzante. La morte è arrivata alle spalle. L’eroismo non sta nell’essere morta. Sta nell’essersi fermata.
Non era certo la prima volta che Eleonora Cantamessa condivideva la croce. Amori sfortunati, amicizie interessate. La pretesa di essere perfetta, un’ansia che a volte la divorava. Una battaglia costante per sposare bellezza, intelligenza e un fuoco dentro che la portava a esserci sempre, sempre per tutte le sue pazienti. Tutte. Le signore bene e le prostitute. Non faceva distinzione alcuna. Le prime pagavano coi soldi, le seconde magari ogni tanto arrivavano con una scatola di cioccolatini. Ce n’erano due il sabato che l’hanno portata al cimitero di Trescore, baciavano e ribaciavano la lapide...
«Penso questo – riprende Mariella –, penso a quanto Eleonora era necessaria qui sulla terra, a quanto bene ancora avrebbe potuto fare. Anche per sé. Non si era sempre voluta bene, aveva fatto i suoi sbagli, era così irruente, così appassionata, così piena di vita, così generosa. Ho qui una lettera che mi ha scritto alla Festa della mamma». Mariella rilegge le parole della primogenita sulla carta consunta. Scrittura elegante, raffinata la forma come la sostanza. Com’era lei, che copriva di colori e di tessuti pregiati un’anima delicatissima. Era una donna modernissima, che andava a mille. «Pregava? Certo. A suo modo, lei pregava Gesù. Nei lunghi anni di lavoro alla clinica Sant’Anna di Brescia, anni di fretta e turni massacranti, passava veloce davanti alla cappellina, apriva la porta e diceva “Ciao Gesù”. Poi via di nuovo di fretta».
Giù in piazza si accende la croce, poi pian piano tutti i lumini nella sera fresca. «Da quella notte mia figlia l’ho rivista pochi minuti disperati nella camera mortuaria dell’ospedale. Il cerone non poteva nascondermi le botte e le ferite. Ho desiderato tanto rivederla almeno in sogno. Dicevo: possibile che non la sogno mai? Perché, che sarebbe così di consolazione? Una notte finalmente la rivedo. Eravamo al cimitero, dove io facevo fatica ad andare perché mi sbatteva in faccia tutta la realtà della sua morte. Nel sogno indossava una gonnellina che aveva da ragazza e con uno straccetto stava pulendo la sua tomba. La vedo da lontano e le dico: ma allora non sei morta! Lei sorride e scompare. Ho pensato a lungo al significato di quell’incontro... All’improvviso ho capito: “Non sono nella tomba, mamma, non vedi? Sono qui con voi...”. Allora, io mi chiedo, allora è questa la resurrezione?».
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