Berlusconi, 20 anni da leader
tra vittorie e sconfitte

«L’Italia è il paese che amo». Chi non ricorda le parole con cui Berlusconi annunciava la sua discesa nel campo della politica italiana? Venti anni dopo il Cavaliere di Arcore deve rassegnarsi all’idea che il suo amore non ha contagiato chi doveva giudicarlo.

«L’Italia è il paese che amo». Chi non ricorda le parole con cui Berlusconi annunciava la sua discesa nel campo della politica italiana? Venti anni dopo il Cavaliere di Arcore deve rassegnarsi all’idea che il suo amore non ha contagiato chi doveva giudicarlo. E oggi gli tocca abbandonare il seggio di Palazzo Madama perché il reato per cui è stato condannato è considerato dalla legge Severino alla stregua di un fallo da espulsione.

Eppure in questi venti anni l’Italia ha spesso ricambiato l’amore di Berlusconi, affidandogli tre volte la guida del paese, compito che egli ha svolto facendo lo slalom tra le vicende giudiziarie e gli strappi dei suoi alleati. A lui l’Italia deve una trasformazione del sistema politico a 360 gradi: c’è un prima e un dopo Berlusconi nella politica italiana, sia nella dialettica tra le forze politiche, che hanno dovuto imparare in fretta l’abc del bipolarismo, sia nella costruzione emotiva della comunicazione politica: dopo Berlusconi i partiti vecchi e nuovi hanno imparato ad avere un leader che sappia imporsi non solo nelle aule parlamentari ma anche e soprattutto negli studi televisivi. Da magnate dell’industria della comunicazione, Berlusconi ha subito capito il potere fascinatore dell’immagine. Il suo ventennio ha visto il trionfo del «partito di plastica», ma sarebbe riduttivo ridurre Berlusconi a fenomeno paratelevisivo.

Il Cavaliere si è imposto come il leader indiscusso dell’Italia allergica alla sinistra rimasta orfana della democrazia cristiana e a cui non interessava se c’era un conflitto di interesse. Quell’Italia è stata attirata con un mix di anticomunismo viscerale e di liberismo a forte trazione antifiscale. Per riuscire nell’impresa Berlusconi ha mandato in soffitta i tabù dell’immobilismo della prima repubblica, sdoganando i post-missini di Fini e i leghisti di Bossi, quando i primi erano visti ancora come impresentabili neofascisti e i secondi come rozzi valligiani che agitavano il cappio in aula contro i politici corrotti. La prima volta di Berlusconi al governo, nel ’94, segna l’inizio della seconda repubblica. E’ in quel periodo che scopre che la baldanza (quella che fa dire a Cesare Previti «non faremo prigionieri”) non è sufficiente a dominare i nemici esterni e interni.

L’avviso di garanzia ricevuto a Napoli all’apertura del G7, al quale si era presentato con Veronica ancora nella parte di moglie innamorata, gela il suo soggiorno a Palazzo Chigi, che viene presto archiviato dal «ribaltone» al quale si prestò Umberto Bossi. Ma Berlusconi impara presto a muoversi con destrezza nei meandri della politica e a non farsi mettere all’angolo anche durante i periodi avversi. Costretto all’opposizione, dice sì all’offerta di D’Alema della bicamerale e al «patto della crostata» a casa Letta, un disarmo bilaterale che in quel momento poteva far comodo.

Anche se ormai l’espressione «ventennio berlusconiano» è di uso corrente, il Cavaliere è riuscito solo una volta a restare cinque anni di fila a Palazzo Chigi (2001-2006). Quei cinque anni sono ricordati soprattutto dalle numerose leggi ad personam che vennero approvate dalla maggioranza di Berlusconi per risolvere i crescenti guai giudiziari del Cavaliere : legge Cirami, legge Pecorella, legge Cirielli, lodo Schifani, lodo Alfano... Il Cavaliere si sentiva sotto assedio e i suoi avvocati-parlamentari correvano ai ripari scrivendo e riscrivendo le regole del gioco. E’ lì che nasce il mito negativo del «Caimano». Forse furono anche questi eccessi ad alienargli le simpatia di una parte del suo elettorato nel 2006, l’anno in cui le urne premiarono (ma solo di strettissima misura) il centrosinistra di Prodi. Ancora una lezione per la sinistra: mai sottovalutare il potenziale di Berlusconi in campagna elettorale. E mai pensare che il Cavaliere sia tipo da aspettare pazientemente il suo turno quando i numeri della maggioranza sono esigui come quella volta. La giustizia oggi dirà se i senatori che passarono dal centrosinistra al centrodestra si vendettero effettivamente a Berlusconi, come sostiene l’accusa nel processo che lo vede imputato. Sta di fatto che anche in quell’occasione Berlusconi diede prova di essere un combattente pronto a tutto.

I suoi vent’anni da leader dimostrano che le difficoltà maggiori gli sono venute dal fronte interno. Fini diede l’addio quando capì che aver sciolto An nel Pdl era stato un colossale errore che lo condannava ad essere un incolore numero due.

Alfano, il suo ex delfino, non ha voluto eseguire l’ordine di mettere fine al governo Letta, che pure Berlusconi aveva contribuito a far nascere, e si è platealmente smarcato. Nel caso di Fini si è visto che la «macchina del fango» dei media legati a Berlusconi è pronta a scattare implacabile quando si tratta di colpire un ex alleato. O anche una ex moglie, come è accaduto a Veronica dopo il suo disvelamento della propensione del marito per le avventure erotiche con giovani donne.

La caduta di Berlusconi dal seggio del Senato non dipende certo dal bunga bunga, da Ruby e dalle cene di Arcore con le «olgettine» , ma è un fatto che i «vizi privati» del Cavaliere hanno accompagnato l’ultimo tratto della sua parabola e ora rischiano di restargli appiccicati addosso ancora più della condanna in via definitiva per frode fiscale. Ma ancora di più, da politico che si è sempre accreditato come lo statista europeo di maggiore esperienza e autorevolezza , dovrebbe bruciargli la sfiducia europea che alla fine del 2011 lo ha costretto a interrompere la sua terza esperienza a palazzo Chigi e a lasciare il campo a Mario Monti. Anche se da grande comunicatore quale è, il Cavaliere pensa già di farne una medaglia antieuropea da esibire al suo elettorato in vista delle prossime elezioni. Alle quali però il non più senatore Berlusconi non potrà essere candidato.

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