«Bergamo senza confini»
Le storie di chi lavora all’estero
Essere più vicini ai bergamaschi che vivono all’estero e raccogliere le loro esperienze in giro per il mondo: è per questo che è nato il progetto «Bergamo senza confini» promosso da «L’Eco di Bergamo» in collaborazione con la Fondazione della Comunità Bergamasca.
Essere più vicini ai bergamaschi che vivono all’estero e raccogliere le loro esperienze in giro per il mondo: è per questo che è nato il progetto «Bergamo senza confini» promosso da «L’Eco di Bergamo» in collaborazione con la Fondazione della Comunità Bergamasca. Per chi lo desidera è possibile ricevere gratuitamente per un anno l’edizione digitale del giornale e raccontare la propria storia. Per aderire scrivete a: [email protected].
La prima storia che raccontiamo è dedicata a Giuseppe Brolis, giovane ingegnere di Tenaris, da Verdello a Buenos Aires.
Eccola:
L’EPOPEA DI BEPPE
CHE GUARDA LE ANDE
SOGNANDO IL PIZZO COCA
di Giorgio Gandola
Non sai se è una filastrocca o una parola d’ordine, di sicuro serve a riconoscere gli autentici bergamaschi qui alla fine del mondo, dove un Papa speciale ha cominciato il suo cammino e dove un’azienda speciale ha una parte fondamentale delle sue radici planetarie. «Sic sac de soc sec/ie car aca cà» risuona lo scioglilingua nei locali della Siderca, gruppo Tenaris, storica fabbrica fondata da Agostino Rocca a Campana, città di centomila abitanti un’ora di macchina da Buenos Aires lungo il rio Paranà immobile e marrone.
«Sic sac de soc sec», recita il motto gutturale e tu devi tradurlo, come la prova della cadrega di Aldo, Giovanni e Giacomo. Cinque sacchi di legna secca sono cari anche a casa. Soprattutto d’inverno nelle valli. Il dialetto come luogo della memoria, come piccola coperta di Linus per chi prende l’aereo da Bergamo con biglietto di sola andata, almeno per ora. Fra questi c’è Beppe Brolis, anzi l’ingegner Giuseppe Brolis, 33 anni, la tuta da lavoro e un sorriso che farebbe uscire il sole anche nella Bassa a novembre. È responsabile «Finiture laminatoio 2» e la sua carriera ha gli orizzonti grandi come quelli della Patagonia, un’ora di volo verso Sud.
«Sono nato a Verdello, ho preso la maturità classica a Treviglio e avrei scommesso su una carriera umanistica, tipo Scienze politiche, perché mia mamma insegnava storia e filosofia. Invece eccomi qui. Come mai? Mi sono iscritto a Ingegneria e l’ho portata avanti con due amici. Quando si studia insieme è tutto meno difficile. Loro sono Luca Benigni, oggi responsabile del nuovo laminatoio in Texas, sempre di Tenaris, e Andrea Algeri, che lavora al reparto corse di Brembo. Amici da sempre e per sempre, con loro ho imparato il valore della squadra. Devo dire che qui è la fabbrica a fare squadra».
Siderca è il sogno industriale realizzato da Agostino e Roberto Rocca negli anni del dopoguerra, quando l’Argentina delle materie prime era un buon posto per provare a concretizzare un progetto imprenditoriale di grande respiro. Oggi la strada più larga di Campana si chiama avenida Agustin Rocca, il riconoscimento al valore di un uomo che diceva: «L’Italia è mia madre, l’Argentina è mia moglie perché l’ho scelta io». E il parco del centro è intitolato a Roberto Rocca per l’orgoglio di chi, italiano, si avventura laggiù. La fabbrica è impegnativa e aggregante. Acciaio, metallo pesante, tecnologìa e il colpo di genio che cambia la prospettiva: quel particolare tubo forato senza saldature che oggi scende nelle viscere della terra – sotto i deserti come sotto il mare – a cercare petrolio e gas. I più bravi al mondo. Il cuore dell’impresa è a Dalmine. La testa, le braccia e il sistema nervoso nei cinque continenti. Fabbriche in Argentina, Messico, Texas, Romania, Giappone, Canada, Brasile, Colombia, Indonesia, Cina. E ovunque la replica di uno stile industriale che non si limita alla produzione, ma diventa un sistema. Abitazioni per i dipendenti (che sono trentamila), scuole tecniche per far crescere le nuove generazioni, centri di aggregazione, attenzione per il collante sociale e culturale.
È questo il «fare squadra» di cui parla l’ingegner Brolis, una sintesi che potrebbe piacere a Paolo Rocca dalla tolda della corazzata dell’acciaio. Brolis è partito da Dalmine, fa esperienza in Argentina e poi... E poi? «E poi forse Houston, forse Veracruz. Io faccio anche il tifo per tornare a Dalmine, ma non sarà così. Ma va bene, so che devo migliorare e che ogni esperienza mi aiuta ad aprire la mente, come tecnico e come uomo. Noi bergamaschi siamo troppo chiusi, te ne accorgi quando sei altrove. Però devo anche aggiungere che siamo dispostissimi, una volta fuori, a fare gruppo. Qui a Campana ogni mese c’è la riunione dei bergamaschi, ci ritroviamo e cuciniamo polenta e salsicce. Salsicce perché gli osei non ci sono. Capita che per rispetto alla tradizione ci avventuriamo in pranzi da tremila calorie con 35 gradi all’ombra. E li chiudiamo con le noci. Portare i cibi dall’Italia è sempre un problema, ci proviamo ogni volta con formaggi, salumi, prosciutti. È una sfida con i doganieri. Avvolgiamo i cibi nell’alluminio, li mettiamo sottovuoto, ci inventiamo scuse pietose come “ho la moglie incinta che ha voglia di prosciutto”. Purtroppo il clima è cambiato. Fino a qualche tempo fa si faceva 50 e 50: sorridevano, uno te lo lasciavano e uno te lo sequestravano. Adesso i doganieri ti tagliano davanti agli occhi tutto e buttano via. Una tristezza infinita».
Il Brolis non è solo, lo accompagna la giovane moglie Elisa. S’è sposato un mese prima di partire come quegli emigranti che ad inizio Novecento lasciavano queste terre senza speranza. Ma per fortuna tutto è cambiato e in fondo «per noi questo è un lungo viaggio di nozze. Un po’ complicato finchè mia moglie non ha trovato lavoro. Insegnava italiano, qui sono tante le persone che vogliono impararlo. Poi ha lavorato in ambasciata e adesso alla Pirelli a Buenos Aires. Questa iniziativa de L’Eco di Bergamo è bella, noi siamo affezionati a tutto ciò che riguarda la nostra terra e poter leggere sul tablet le notizie di casa mia è un valore».
Un mese fa gli argentini si sono svegliati con il peso che valeva il 30 per cento in meno rispetto al dollaro, e il carrello della spesa costava il 30 per cento in più. Ma hanno saputo come sempre esorcizzare le avversità con un sorriso amaro chiamando questo dollaro che vale 10 pesos «dolar Messi», dal numero sulle spalle del calciatore fuoriclasse. Argentina complicata per quanto è lunga; per percorrerla tutta dal Nord alla Terra del fuoco servono tre ore di aereo. E nonostante ciò con un’anima racchiusa fra due monumenti a Buenos Aires. Quello brutto di Evita nel giardino del quartiere Palermo (nessuno lo guarda perché lei è magra, sofferente e sembra che giochi a bowling) e quello gagliardo di Gardel, che inventò il tango e la malinconia, all’ingresso del cimitero popolare di Chacarita. Gardel era un grande fumatore, così ogni visitatore è pregato di infilargli una sigaretta fra l’indice e il medio. Quando sta per finire c’è chi ne accende una nuova e la sostituisce, sorta di cero votivo che non si spegne mai.
È questo il mondo col quale il nostro ingegnere di Verdello deve fare i conti tutti i giorni. «Gli argentini mi piacciono, hanno molti più problemi di noi ma non si lamentano mai. Quando vado al supermercato con la lista di mia moglie, talvolta sono in difficoltà a trovare i prodotti. Allora la gente si avvicina e mi chiede se può essermi d’aiuto. I primi tempi tanta affabilità mi pareva incredibile. E poi la cassiera. Ti vede tre volte, ti riconosce e ti ferma a fare conversazione. La fila dietro? Aspetta. Da noi devi imbustare la spesa prima che la cassiera abbia chiuso il conto. Uno stress. Qui si lavora, si cresce senza troppe nostalgìe. I miei a casa, se voglio li vedo tutti i giorni, magìa di Skype. Mi mancano soprattutto le nostre montagne. Per sciare e camminare in quota devi prendere l’aereo: 1.200 chilometri per trovare la neve, lassù a Las Lenas, sulle Ande. Bello, ma non farei mai cambio con il Pizzo Coca o il rifugio Curò». Resta un ultimo incrocio sacro fra Bergamo e l’Argentina, vero Giuseppe Brolis? Leggero imbarazzo percepito. «Resterebbe l’Atalanta. Ma qui le va malissimo, ha beccato l’unico interista bergamasco del Sudamerica. Un nerazzurro sbagliato, nessuno è perfetto».
Giorgio Gandola
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