CARACAS (VENEZUELA) - Sì, il fuoristrada, seppur stremato e orfano della trazione integrale, non mi ha tradito, il fango non mi ha inghiottito e sono approdato, sfinito ma sano e salvo dopo mille peripezie, a Caracas, in Venezuela. Il tratto Georgetown-Lethem in Guyana si è rivelato meno insidioso del previsto, tuttavia informazioni errate mi hanno dirottato su uno sterrato terribile in cui mi sono impantanato (mi ha salvato un camion), mentre la stanchezza mi ha trascinato ancora nella melma, nel cuore della foresta pluviale, quando sembrava che fossi ormai fuori pericolo (mi sono salvato da solo, infilando rami sotto le ruote, cinque minuti prima che venisse buio). Non è che la situazione sia diventata radiosa a Caracas: sto impazzendo per rintracciare un cargo diretto a Panama e il clima è abbastanza incandescente a causa delle proteste popolari determinate da una catena impressionante di sequestri e omicidi (in una settimana sono stati uccisi l’industriale italiano Filippo Sindoni e due bambini, che erano stati rapiti, e un fotografo che stava immortalando la contestazione in strada), anche perché pare che ci sia lo zampino della polizia corrotta, ma perlomeno non mi scappa la terra sotto i piedi dopo quindici giorni di fiumi e fango, in cui la parola vacanza è stata bandita. Il problema vero è il tempo che vola, è quasi Pasqua e non sono ancora in America Centrale. Sono stato intervistato da un settimanale, «Urbe», che ha voluto fotografarmi legato al fuoristrada: senza volerlo, ha rappresentato alla perfezione la mia condizione attuale.
Finalmente vi posso raccontare del Sudamerica, anche se in diverse puntate del racconto su internet mi era già intrufolato in America Latina.
Sono atterrato a Buenos Aires in una domenica nuvolosa in cui le strade erano deserte e la metropoli era mezza addormentata, senza la sua prorompente vitalità. Ho apprezzato l’efficacia della compagnia Manuel Leon Tienda che mi ha condotto dall’aeroporto Ezeiza al suo terminal in città con un pullman e dal terminal all’ostello con un’auto-taxi a un costo supplementare irrisorio, poco più di un euro. Più comodo di così....
Destinazione «El Cachafaz», un ostello nel Microcentro di Buenos Aires che avevo scelto leggendo la guida e che - se non resterò legato a Caracas - si rivelerà probabilmente la sistemazione del raid numero uno per numero di notti trascorse (19). Mi sono sentito subito a casa mia, nonostante non fosse un ostello a cinque stelle. Per me era ok (6 euro, colazione e internet gratis), con un’atmosfera informale, cordiale e familiare e mi ci sono affezionato.
Mariela, che lo gestisce e che era incinta (ho saputo che le è nata una bambina, Luana), si è rivelata una miniera di informazioni utili e mi ha sempre dato una mano, così come Melanie, la sua collaboratrice venezuelana, così come Cristiano, un brasiliano-giapponese che lavorava nelle ore notturne. Ho avuto compagni di camerata di tutto il mondo, c’era un continuo via vai: australiani, statunitensi (decisamente critici con la politica di Bush), sudamericani, europei e italiani, come Nicola, un piacentino di 27 anni, che è diventato il mio compagno di viaggio per un paio di mesi (e che ho rivisto a Caracas con la sua amica Eleonora), Piero, un calabrese-parigino un po’ strambo, e Vito, un atleta di Terni che sogna di partecipare alle Olimpiadi di Pechino nella specialità del lancio del martello (ma era fermo per doping, nonostante lui non si sentisse colpevole).
Nicola si è presentato offrendomi una birra e raccontandomi che la sera prima aveva perso il passaporto. Nicola fa quello che tanti vorrebbero fare, ma che credono sia impossibile fare. Lavora duramente tre, quattro mesi all’anno, quasi sempre in estate (come perforatore e come aiuto meccanico in un’industria alimentare che tratta pomodori), e con i guadagni viaggia per il resto dell’anno all’estero. Nel suo cuore ci sono l’Irlanda e Cuba. È stata una convivenza talvolta faticosa, abbiamo avuto più di uno scontro verbale, ma, forse, soltanto perché siamo due arieti testardi o perché ci separa quasi una generazione. Se ci penso ora molte discussioni sono nate da stupidate, non abbiamo una concezione del mondo e della vita radicalmente diversa, a sballare sono le sfumature. È stato comunque un compagno di viaggio leale e prezioso aiutandomi nelle interviste in spagnolo e guidando su sterrati terribili per consentirmi di scattare fotografie. Ci rivedremo in Italia con una botte di birra.
Il mio primo intendimento a Buenos Aires - qui sopra la Casa Rosada, quartier generale del presidente argentino - era di constatare se i 1280 euro pretesi dall’Universal Cargo, l’agenzia contattata dalla Elliott per curarmi lo sdoganamento del fuoristrada, fossero una cifra assurda o normale. Se avessi individuato in due giorni una soluzione più conveniente, avrei potuto avvertire la Elliott che avrebbe cambiato i documenti di viaggio e il nome dell’agenzia. Ho deciso di accompagnare in ambasciata Nicola che doveva risolvere il problema del passaporto, anche se le informazioni che premevano a me erano più da ufficio commerciale. In ambasciata ci hanno liquidato dicendoci che erano affari del consolato, a due passi dall’ostello, ma si sono scordati di avvertirci delle strane modalità per accedervi. Apre quattro giorni alla settimana dalle 8 alle 11,30, solo che per entrare ci si deve mettere in fila alle 5 del mattino. Noi siamo arrivati alle 5,30 ed eravamo in quindicesima posizione, ci precedevano soprattutto persone che avevano dormito lì e che avrebbero ceduto il loro posto ai ritardatari disposti a pagare. Siamo entrati alle 8,30 e io ho potuto parlare verso le 10 con una funzionaria che mi ha dirottato, come immaginavo, alla Camera di commercio italiana. Poco prima quella stessa funzionaria aveva parlato alla gente in attesa, ed erano quasi tutti anziani indigenti, dicendo loro che non c’erano più fondi a disposizione per i sussidi e che sarebbero state aiutate soltanto le persone con emergenze mediche. Così, già che c’ero, le ho domandato qualcosa sull’argomento.
Soltanto nella circoscrizione di Buenos Aires ci sono 360.000 abitanti con passaporto italiano e di queste ce ne sono diverse migliaia con notevoli problemi economici che, senza i sussidi, vedranno aggravata la loro precarietà. La Camera di commercio è nello stesso edificio. Mi ha ricevuto il segretario generale, Luigi Egidy, che ha contattato le sue conoscenze nel settore e mi ha confermato che l’Universal Cargo è un’agenzia seria e che le cifre, pur spropositate, sono normali per il Sudamerica e in primis per l’Argentina, un Paese che si è risollevato dalla tremenda crisi economica del 2001-2002 evitando di pagare i suoi creditori (ad eccezione del Fondo monetario internazionale). Ok, sono andato all’Universal Cargo dove mi hanno garantito che una settimana dopo l’arrivo del cargo avrei potuto ritirare il fuoristrada. Soltanto che non sapevo ancora quando sarebbe salpato da Cape Town. Ho strappato a Carola, il mio contatto, uno sconto di 80 euro (ma erano sempre 1.200 euro, robe da matti) e ho sbrigato subito le pratiche pendenti: ho firmato da un notaio (per fortuna costa meno che in Italia: solo 7 euro) un documento e ho assicurato il fuoristrada per quattro mesi (64 euro, copertura estesa ai Paesi del Mercosur). Sono stato alla sede dell’Ansa di Buenos Aires per parlare con Oscar Piovesan, un giornalista che collabora anche con la «Gazzetta dello Sport». Volevo avere il recapito di Maschio per intervistarlo ma Oscar si è informato e ha scoperto che l’ex atalantino abita a Cordoba, 700 km a nord-ovest. Niente da fare. Purtroppo ho saputo soltanto nel penultimo giorno di permanenza a Buenos Aires che Leo Rodriguez, una meteora in nerazzurro, è il presidente dell’associazione calciatori argentina, ma ormai era tardi per contattarlo.
Esaurite le urgenze, ho potuto dedicarmi a visitare Buenos Aires con la banda dell’ostello. Una metropoli di 4 milioni di abitanti (12 con l’hinterland) che garantisce il 100% di quello che può offrire una grande capitale europea, con la differenza che i costi sono irrisori (ho calcolato che si può vivere e ci si può divertire con circa 20 euro al giorno), che è frenetica, ma nello stesso tempo sudamericana, ovvero sa godersi la vita a ritmi rallentati. Se sei italiano è come essere a casa, la gente si fa in quattro per aiutarti, anche perché un terzo, forse metà della popolazione ha ascendenti italiani e la vecchia patria nel cuore. Mi è successo di domandare un’informazione e di far perdere involontariamente un quarto d’ora a una persona che voleva assolutamente darmi una risposta.
A Buenos Aires ci si muove in taxi, ce ne sono 38.000 e sono a buon mercato (con 3 euro si attraversa la città), e si respira un clima di generale sicurezza, anche se la povertà è un problema perché c’è chi non si è ripreso dal collasso economico. Chi aveva in banca o sotto il materasso i pesos e non i dollari, quando la moneta argentina è colata a picco, ha subìto una mazzata terribile. In centro, ancora prima che cali il buio, entrano in azione i riciclatori che separano i rifiuti e in periferia le baracche sono la normalità.
Su un giornalino alternativo venduto in strada ho letto una storia allucinante: una grande impresa straniera usa un treno con vagoni senza luci, porte, vetri, e non sempre c’è il pavimento, per trasportare i cartoneros, ovvero poveri che vivono nei cartoni, da un stazione abbandonata alla periferia di Buenos Aires al lavoro che è massacrante e pagato una miseria. C’era scritto che dieci anni così equivalgono a una vita intera spesa per un altro lavoro manuale. È un treno fantasma, nonostante ci siano già stati diversi incidenti mortali, di una realtà sconcertante.
I quartieri più caratteristici sono San Telmo con i suoi acciotolati e l’atmosfera intima,la Boca, di cui parlerò, Puerto Madero, un’area portuale riqualificata e diventata alla moda, la raffinata Recoleta, dove c’è una vita notturna che diventa straripante a Palermo «Hollywood», il nuovo fenomeno di Buenos Aires: un’esplosione di ristoranti, discoteche e di trasgressione.
Una sera abbiamo assistito al concerto di Manu Chao nello stadio del Newell’s Old Boys (un club minore, non la squadra che gioca nella massima serie argentina ed è di Rosario): l’artista francese ha dato vita a uno show vibrante e coinvolgente davanti a circa 10.000 spettatori, concedendo il microfono anche a un paio di intrepidi vecchietti.
Un sabato abbiamo sperimentato la «movida» di Buenos Aires, una metropoli che vive 24 ore al giorno. Scorpacciata di carne (la più tenera e prelibata del mondo: una bistecca di 400 grammi costa 4 euro), «carburazione» in un palazzo d’epoca a tre piani da mille e una notte, trasformato in bar-ristorante, e discoteca a Recoleta, dove i locali notturni sono allineati e tendono all’infinito. Siamo rientrati alle 7 del mattino. Qualche ora di sonno e partenza, con un tour organizzato al fine di evitare possibili incidenti, per lo stadio del Boca Juniors dove si giocava un match di campionato, il derby metropolitano tra il famoso e quotato Boca, che era secondo, e il Velez Sarsfield, terzo.
Non immaginavo che la mitica «Bombonera» fosse così decrepita, ma indubbiamente lo spettacolo della tifoseria «La Doce», una delle più calde del Sudamerica, è stato degno delle attese per l’incitamento alla squadra che non è sfumato nemmeno un minuto. Io ero nel terzo anello della curva nord (4 euro l’entrata), sopra la «Barra brava» della «Doce». Il Boca non ha entusiasmato, davanti a 40.000 spettatori e a Maradona, che non si perde un’esibizione casalinga della sua ex squadra e partecipa con smodata passione all’andamento della partita dal suo box nella tribuna vip (eccolo qui a lato), tuttavia nella ripresa ha segnato con Insua i due gol del definitivo 2-0.
Un successo fondamentale, perché lo scudetto è stato vinto un mese dopo proprio dal Boca che nell’ultima giornata ha superato e beffato il sorprendente Gimnasia La Plata.
Lo stadio è ubicato nel quartiere della Boca che è uno dei più antichi e popolari dellacittà con le sue vecchie case in lamiera colorata, molte delle quali sono state ristrutturate perché costituiscono un’attrattiva turistica.
In effetti il «Caminito», il cuore della Boca, è un pullulare di negozi di souvenir, bancarelle e di ristoranti all’aperto dove si balla il tango (sotto), ma è sufficiente spostarsi di un centinaio di metri per scoprire la Boca autentica. Un bar-parrilla appena fuori mano mi ha colpito per la sua genuinità. Quando ci sono stato da solo l’ho fotografato mentalmente. Tovaglie ormai stinte a quadretti rossi, bianchi e blu, sedie di legno e similpelle con la gommapiuma che fuoriesce, bandiere, magliette e gagliardetti del Boca sulle pareti, dove in equilibrio precario ci sono pure bottiglie di vino e liquori e quadri con le tele evase dalla cornici. In bella vista un frigorifero arrugginito e un ferrovecchio dove si cucinava alla brace. Musica soffusa e malinconica. Commensali rigorosamente argentini, operai, giovani coppie squattrinate e anziani che si punzecchiavano. Pulizia minima, ma carne da dieci e lode. Ho ordinato a Martin, un omone strabico con un grembiule rosso, una birra specificando che la volevo gelata, e lui mi ha messo sul tavolo una Brahma da 970 cc: sul vetro c’era uno strato di ghiaccio, ok.... Filetto, patatine e come dessert un gelato che però era assolutamente disgustoso, sembrava plastica. Quando Martin mi ha domandato se il pranzo era stato ok, non ho potuto non parlare del gelato. Lui non l’ha inserito nel conto e mi ha offerto un caffè che ho bevuto, nonostante il barista esibisse la maglietta del Milan.
In un negozio della Boca ho notato un impermeabile in pelle alla Matrix, nero con inserti bianchi. Ci sono stato due volte, ma il titolare non è stato in grado di recuperare una large. Forse mi sono salvato: a Bergamo sarebbe stato impresentabile.
L’e-mail tanto attesa della Elliott è finalmente arrivata. La nave cargo «The Faith I» era salpata da Cape Town e quindi orientativamente potevo prevedere quando avrei riavuto il Land Cruiser. Il mio collega Stefano, intanto, aveva prenotato intanto un volo per Santiago del Cile, l’idea era di quella di vederci nel sud dell’Argentina, ma se ci fossero stati ritardi nella consegna del fuoristrada lui sarebbe rimasto a piedi e allora ho deciso che la base di partenza sarebbe stata Santiago, anche perché Stefano è allergico ai voli (uno era stato più che sufficiente) e Nicola (qui sotto), che si sarebbeaggregato, era diretto a Mendoza, città argentina sulla strada per Santiago.
Il mio raid era destinato ad allungarsi di circa 2.000 chilometri: da Buenos Aires saremmo dovuti scendere subito verso la penisola di Valdes, sempre sulla costa est del Sudamerica; così, invece, mi sono caricato sulle spalle un coast to coast Atlantico-Pacifico e un ritorno verso l’Atlantico e la penisola di Valdes attraverso la Pampa e un primo pezzo di Patagonia. Pazienza. A Buenos Aires non avrei avuto nulla da fare per quasi tre settimane in attesa del fuoristrada (undici giorni di navigazione, più i controlli ) e allora ho deciso di volare una decina di giorni in Brasile con due obiettivi: Sao Paulo, dove abitava Sandro Ghilardi, un bergamasco-brasiliano che mi aveva invitato tramite internet, e l’isola di Santa Catarina a Florianopolis, che mi era stata decantata. Mariele mi ha parlato di una compagnia low-cost brasiliana, la Gol, che ha un volo Buenos Aires-Sao Paulo e che in Argentina si può prenotare soltanto su internet. L’unica carta di credito accettata è l’American Express, io avevo la Visa e allora è stata Mariele a prenotarmi il volo con la carta di credito del marito (240 euro andata e ritorno).
L’ultimo giorno prima della partenza è stato intenso. Era un giovedì, giorno in cui le madri di Plaza de Mayo (sopra) si riuniscono settimanalmente per reclamare una giustizia che attendono ormai da 29 anni. Sono le madri dei desaparecidos, vittime della dittatura dei militari (1976-1983), potenziali oppositori del regime che scomparvero e di cui nessuno seppe più nulla. Quel giovedì era però un giorno speciale perché veniva inaugurata «La voz de las madres», la radio delle madri di Plaza de Mayo che avrebbe amplificato la loro protesta, smorzatasi inevitabilmente nel tempo, ma mai morta. Testimonianze di un passato tragico, volontà di non mollare e musica si sono alternate sul palco. C’era una strana atmosfera, come se fosse ancora tempo di rivoluzioni, peraltro pacifiche, ma mi sembra che anche in Sudamerica non ci sia più spazio per le rivoluzioni. Volevo intervistare la leader delle madri, Hebe de Bonafini (qui sotto), maMiriam Paz, la sua collaboratrice, ha dato appuntamento a me e a Nicola alla conclusione della giornata. Siamo così corsi nella galleria d’arte gestita da Fernando, il marito di Mariele, che ci aveva invitato alla presentazione della mostra di Juan Barros, un artista cieco quarantenne, decisamente poliedrico (è professore di psicologia, pittore, scrittore e scultore), che trae la sua forza da una grande fede.
A tarda sera di nuovo in piazza, dove l’energica Hebe, tra abbracci, baci e foto con i suoi fan, ci ha parlato. Raccontandoci di quel 30 aprile 1977, il primo giorno di protesta nella piazza, della resistenza alle botte dei militari, e chiarendo che lei e le altre madri sanno benissimo che i loro figli sono stati uccisi (Hebe ne ha persi due) ma che attendono ancora che lo Stato riconosca ufficialmente la loro morte e punisca i responsabili. Da qualche anno la giustizia sta tentando lentamente di farsi largo, il problema è che l’influenza dei militari non si è spenta nella democrazia argentina.
La mattina dopo sono volato a Sao Paulo (circa tre ore di viaggio con il Boeing 737 della Gol) e ho telefonato a Sandro che lavora alla Embraer, un’industria aeronautica, come amministratore di materiali. Nell’intervallo di una riunione mi ha dato le indicazioni per arrivare alla città dove abita, che non è Sao Paulo come pensavo, ma Cacapava, circa 120 km a nord-est della megalopoli. Dall’aeroporto Guarulhos al terminal dei bus in città, un pullman fino a Sao José dos Campos, dove ci sono l’Embraer e diverse multinazionali, e uno fino a Cacapava, dove mi attendeva Ana Paula, la moglie di Sandro. Sia lui, sia lei sono stati molto gentili, la madre di Ana Paula era in vacanza, così io ho potuto dormire nella sua stanza. Sono stati quattro giorni di relax, in cui ho scritto e conosciuto la realtà di un centro grande come Bergamo.
Non ci siamo mossi molto, perché Sandro - un brasiliano di 31 anni adottato, quando ne aveva 11, da un falegname di Dalmine, Renato Ghilardi, e da Rosa Riboli - doveva lavorare e studiare per laurearsi in commercio internazionale; inoltre il figlio Gianluca,che aveva dieci mesi, lamentava qualche problemino di salute. Abbiamo trascorso la domenica in un laghetto di campagna, dove c’è un allevamento di pesce. Squisito. Io non ho tentato di pescare. mi annoia. Verso sera sono stato al «Bahiano», il bar più alternativo della città, ed è stato uno spasso: il locale è sull’angolo di un incrocio che nel weekend s’intasa regolarmente, sia per la presenza di giovani che chiacchierano con una birra in mano, sia perché una serie di tamarri, in vena di esibizionismo, fa passerella sgommando con il motore rombante e la musica a tutto volume. Ma non parlo di bolidi, prevalentemente sono utilitarie truccate. Chi ha la moto... impenna.
Volevo visitare la Embraer, che è la terza industria a livello mondiale nel settore (dopo l’Airbus, consorzio franco-inglese, e la Boeing statunitense), ed è stato abbastanza complicato avere l’ok, nonostante il prodigarsi di Sandro. Comunque l’autorizzazione è spuntata e Gracielle, un’affabile addetta stampa, mi ha guidato nella visita parziale (lo spionaggio industriale è sempre in agguato) dell’immenso stabilimento di Sao José dos Campos. Ho visto il reparto dove si assembla la fusoliera e quello dove si rifinisce il velivolo. Con uno strappo alla regola mi ha consentito di salire su un Legacy Executive, un aereo, in fase di allestimento interno e personalizzazione, da 8-10 posti che profumava di lusso con interni in radica, bar e poltrone che erano letti. Un giocattolino da venti milioni di euro prenotato da un acquirente svizzero. La forza dell’Embraer, brasiliana al 99%, è di aver puntato su aerei regionali tecnicamente all’avanguardia e con basso costo di esercizio e manutenzione. Nel suo parco clienti c’è pure l’Alitalia che ha in organico quattrodici ERJ 145 (50 posti), sei 170 (70-78 posti) e vanta (o perlomeno vantava) un’opzione su sei 190 (98-106 posti).
(Nella fotografia sopra il nuovissimo modello dell’Embraer 195)
Era tempo di puntare su Florianopolis, 850 km più a sud. In pullman da Cacapava a Sao Paulo dove ho scoperto che non c’era una partenza notturna per Florianopolis; per non attendere il mattino dopo sono salito al volo su un pullman per Curitiba, che era a metà strada, e all’alba ne ho preso un terzo per Florianopolis. Al terminal dei bus c’era un’agenzia di viaggi, non volevo perdere tempo vagando di posada in posada e così mi sono affidato all’agenzia per una sistemazione all’isola di Santa Catarina, e precisamente a Barra da Lagoa, in posizione più o meno centrale sulla costa est, non lontano da una laguna interna. Per me rappresentava la soluzione ideale: era abbastanza isolata e selvaggia, ma con un centro animato a dieci minuti di pullman. Mi ha accompagnato in auto il titolare dell’agenzia, cortese e scrupoloso. Un appartamento con camera da letto, bagno, ampio soggiorno con cucina e soppalco per 15 euro a notte. Non era ancora alta stagione, l’atmosfera era fiacca e il cielo brontolava, per due giorni ha piovuto.
Non sono stato fortunato, tuttavia la spiaggia a mezzaluna era infinita, si poteva camminare per chilometri senza incrociare nessuno, se non pescatori. E anche se lo sfondo era grigio, lo spettacolo del mare è sempre emozionante. Ho conosciuto un veneto quarantenne che era in Brasile per lavoro, si è innamorato dell’isola e ha dato addio all’Italia. Stava per aprire un baretto sulla riva della laguna con musica italiana.
Da Florianopolis a Sao Paulo, una tirata di 12 ore su un pullman in classe semicama (cioè con poltroncine confortevoli che si reclinano quasi a diventare lettini), e da Sao Paulo a Cacapava, dove sarei rimasto per il weekend prima di volare a Buenos Aires per vedere se il fuoristrada era sbarcato.
Da Barra da Lagoa avevo inviato un’e-mail a Miriam Sanguinetta, una suora laicabergamasca di Sarnico (a sinistra nella foto qui a lato) che mi risultava operasse a Sao Paulo, per tentare di intervistarla, ma non avevo più controllato la posta elettronica. Ho scoperto a Cacapava che mi aveva risposto e che era disponibile a vedermi. L’avessi saputo prima mi sarei fermato a Sao Paulo. La domenica ho dunque salutato Sandro (la sera prima ci eravamo abbuffati in una churrascaria) e ho ripreso il pullman per Sao Paulo.
Avevo appuntamento con Miriam alla stazione della metropolitana di Belem, quartiere a est del centro. Con lei e con padre Gianpietro Carraro (sotto), un quarantatreenneveneziano, mi sono immerso per quasi un giorno nella triste realtà della Sao Paulo degli ultimi, dei disperati. Per raccontare i personaggi (tra cui un ventitreenne pluriassassino convertitosi) e le realtà dolorose che mi hanno toccato ci vorrebbe più dello spazio che sto utilizzando per questa puntata. Ne parlerò sul giornale. Quello che posso scrivere ora è che padre Gianpietro è una delle persone che mi ha colpito di piùin assoluto nel raid per la serenità che trasmette quando parla e l’opera che lo deve protagonista con Miriam e con Chiara (sorella di Gianpietro) - consiste nel dare assistenza e un rifugio ai ragazzi di strada, ai barboni e a chi soffre e ad aprire il loro cuore verso la fede - è una delle più pure e nobili che possano esistere. Sono stato con padre Gianpietro, che vive nella favela di Nelson Cruz, e con Miriam una notte per le vie e le piazze di Sao Paulo. Per loro due è abituale, ci vanno abitualmente se vederese possono dare una mano al popolo di sventurati che non ha un tetto sotto cui dormire.
Io sono rimasto scioccato nell’osservare giovani, addirittura bambini già persi nel tunnel della droga che per loro è la colla, mastice per calzolai, aspirata da sacchetti di plastica. Così come mi ha impressionato il potere spirituale di padre Gianpietro in un ritiro di evangelizzazione-impatto.
Ho dormito a Itatiba, in una casa-famiglia abbastanza spartana ma dove c’è un calore umano immenso, e il mattino dopo Miriam e Chiara mi hanno dato uno strappo all’aeroporto.
Rientrato a Buenos Aires, è scoppiata una grana relativa ai documenti di viaggio del fuoristrada che nel frattempo era regolarmente sbarcato. La Elliott non aveva menzionato negli incartamenti tutto quando c’era all’interno del Land Cruiser. Una dimenticanza che avrebbe potuto costarmi giorni supplementari di attesa prima di ritirare il fuoristrada e soprattutto tasse da pagare per l’importazione di merce non dichiarata, tasse addirittura pari al valore della merce. Il problema è stato risolto, su suggerimento di un’imbarazzata Carola, sganciando una mazzetta di 120 euro ai doganieri che avrebbero controllato documenti e veicolo. Mazzetta che ha provveduto lei a far pervenire ai destinatari. È stata una settimana di sofferenza, temevo sorgessero nuove complicazioni.
Dal venerdì la consegna è slittata a lunedì, così non ho potuto essere puntuale all’appuntamento con Stefano che mi ha atteso qualche giorno in un hotel di Santiago.Ma così ho potuto trascorrere la domenica a Rosario, città a 300 km a nord ovest di Buenos Aires, sul fiume Paranà, per conoscere l’avvocato Franco Tirelli, che pure lui mi aveva scritto un’e-mail di invito. Ci sono arrivato in pullman partendo la mattina all’alba.
Tirelli (sposato con Viviana e con due figli, Octavio, di 10 anni, e Augusto, di 9) non èbergamasco (è milanese), ma è quasi come se lo fosse. Suo padre, l’ingegner Franco Tirelli senior, presidente della Camera di commerio italiana di Rosario, emigrò in Agentina nel 1948, ma la sorella del padre, zia di Franco Junior, nel 1949 rientrò in Italia e sposò un bergamasco.
Marisa Tirelli e Gianpiero Bertoldini abitano ancora in via Marzabotto, vicino allo stadio, e per i Tirelli argentini Bergamo è diventata la principale tappa di vacanza quando volano in Italia.
Rosario è la città natale di Ernesto Guevara de la Serna. Il Che nacque il 14 giugno 1928 in un palazzo d’epoca (nella foto sopra) all’incrocio tra via Urquiza e via Entre Rios dove ora c’è una compagnia d’assicurazioni. La famiglia Guevara abbandonò peraltro Rosario nel 1932, trasferendosi nei dintorni di Cordoba, in quanto il Che soffriva di asma e per lui era più salutare una città con il clima più secco. Ecco parzialmente spiegato il perché a Rosario non esistono tracce del Che.
L’ente turistico mi ha sommerso con una valanga di depliant, ma non c’era una riga dedicata a lui (così come non c’è nulla che lo ricordi davanti alla casa). Naturalmente non sono stato il primo a informarsi sul Che; per i delusi l’ente turistico ha perlomeno in vendita un mini-poster con un mosaico di suoi primi piani. In città c’è una piazzetta secondaria dove si può vedere un suo ritratto su un monumento, c’era un progetto un museo sul Che, ma sembra essersi arenato perché non esiste nulla da esporre.
A pranzo siamo stati in un ristorante che dà sul rio Paranà, ma sembra di essere al mare, perché il fiume è immenso, punteggiato di barche a vela, e sulla riva c’èl’invitante spiaggia di sabbia di «La Florida» con uno stabilimento balneare stile riviera romagnola.
Franco Junior
è un appassionato di calcio e gioca in una squadra di amici in uno splendido circolo sportivo privato immerso nel verde dove i manti erbosi, in Argentina è molto praticato anche il rugby, sono un distesa sconfinata. Quel giorno era l’ultima giornata di campionato per cui l’ho accompagnato per vederlo giocare e l’ho visto vincere 2-1 una sfida di godibile livello tecnico. In Italia, tra amici, si gioca generalmente meno bene.
Serata a casa Tirelli dove Franco junior ha preparato la carne alla brace svelandomi qualche piccolo segreto gastronomico.
Di nuovo a Buenos Aires, viaggiando di notte, e alle cinque del mattino ero a nanna. Il ritiro del fuoristrada non ha presentato imprevisti. I lucchetti del container da 20 piedi sono stati rotti davanti a me e a un rappresentante dell’Universal Cargo nel magazzino della dogana, non lontano dal porto, e io non sapevo se ridere sotto i baffi o essere imbarazzato quando il doganiere, che presumo fosse uno dei destinatari della mazzetta, mi ha interrogato su quanto c’era all’interno del fuoristrada.
Domande evidentemente formulate per dare un briciolo di serietà al controllo. Ilcontainer è stato richiuso, caricato su un camion e trasportato nel magazzino della Elliott. Qui il Land Cruiser è stato liberato, gli operai hanno ricollegato la batteria e rimontato il portapacchi e io ho potuto lanciarmi verso Mendoza e Santiago. È stata una sensazione inebriante avere di nuovo il volante tra le mani, mi sono accorto di quanto fossi monco a non averlo: la totale libertà di movimento è impagabile.Marco Sanfilippo
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