RAUTEN (CILE) Sto scrivendo in una deliziosa casetta di legno immersa nella campagna nei dintorni di Quillota, a un’ora di strada da Viña del Mar, il centro balneare più alla moda del Cile. L’eco per l’elezione di Michelle Bachelet alla presidenza qui è molto sfumato, c’è soltanto musica rilassante. Sono cullato dal verde, sulle pendici di una collinetta, davanti a me ci sono fiori e mandorli. Sul retro di quella che è la dependance di una villa abitata da due imprenditrici piacentine scalpita un cavallo bianco. È l’atmosfera ideale per riordinare le idee, preparare l’assalto a Bolivia e Brasile e principalmente recuperare il terreno perduto nel racconto.
Intanto esauriamo il discorso Namibia. La tappa da Opuwo a Uis è stata sostanziamente di trasferimento e si sta rivelando per il momento la più lunga per i chilometri di sterrato percorsi (ben 570). Una strada bianca caratterizzata da secchi saliscendi sui quali mi sono avventurato con slancio con il risultato di fiaccare il fuoristrada.
A causa delle mille restrizioni, abbiamo saltato il settore più selvaggio della Skeleton Coast, la fascia costiera avvolta nelle nebbie e famosa per essere stata un tempo il cimitero delle navi che s’incagliavano nella sabbia, preferendo abbracciare il mare più a sud avendo come obiettivo Cape Cross. Il tratto da Uis all’Oceano Atlantico è destinato a restare nella mia memoria per la sua irrealtà. C’è da dire che la Namibia ha un panorama sempre sorprendente e originale tanto che non di rado sembra di essere catapultati sulla Luna o su Marte. Di prima mattina abbiamo attraversato un deserto privo di vegetazione e con rilievi bassi che s’intravedevano in lontananza: per un effetto ottico sembravano sospesi in aria, no, forse sembravano galleggiassero sul mare. Ma l’acqua ancora non c’era, era un muro di nebbia che ci ha avvolto senza che quasi ce ne accorgessimo inghiottendo anche il timido sole che era appena nato. Nebbia più polvere sollevata dai camion, non si vedeva più nulla. Infine la nebbia si è dissolta, il deserto è diventato meno assoluto, punteggiato da arbusti e da paurosi struzzi solitari, e noi siamo sbucati davanti all’oceano. Deviazione verso Cape Cross, una famosa riserva di otarie, poco più a nord, nell’ultimo lembo della Skeleton Coast. Strada litoranea asfaltata e mare seminascosto da dune di sabbia e sale. In attesa dell’apertura della riserva, abbiamo ingannato il tempo con una ricca colazione sulla riva dell’oceano in un albergo di charme, l’unico dell’area.
A Cape Cross c’è una colonia di migliaia di otarie. Sono animali marini buffi, i maschi possono superare i 300 chili di peso, e la loro presenza sulle coste dell’Africa meridionale è massiccia, tanto che si è calcolato che mangino ogni anno un milione di tonnellate di pesce. Per salvaguardare l’industra ittica molte otarie sono abbattute, ma non cambia nulla perché la loro diminuzione favorisce predatori diversi. Ci ha colpito un cucciolo appena nato: la madre giaceva esausta al suo fianco e lui si dibatteva, già animato dall’istinto di sopravvivenza, con ancora attaccato il cordone ombelicale.
Ritornando verso sud ci siamo infilati tra le dune di sabbia e di sale, improvvisando un divertente fuori strada, e per una cinquantina di chilometri abbiamo guidato sulla spiaggia dribblando i numerosi pescatori. Sivan si è insabbiata e così abbiamo perso una ventina di minuti per liberare le ruote dalla morsa della sabbia, era il caso di concludere l’avventura off-road. Swakopmund è una cittadina gradevole con le vie orlate da palme e i suoi fiori, i ristoranti, le pasticcerie e i caffè alla moda, ma non ha nulla di africano: la sua impronta teutonica è lampante e la densità di tedeschi alle stelle. Tramite l’ostello abbiamo prenotato due ore all’insegna del doppio divertimento sulle dune, quad bike e sandboarding, a quindici km a sud di Swakopmund.
Con noi c’era una giovane coppia di belgi. Abbiamo dato gas al quad 250 lungo un percorso panoramico prefissato e io mi sono rivelato un mezzo disastro, nonostante in Italia avessi già usato un quad 500. Continuavo a sbandare a destra e a insabbiarmi, così l’istruttore doveva venire a recuperarmi. Non escludo un problema meccanico o forse ero proprio io a essere negato. Comunque, concluso il tour, l’istruttore ci ha accompagnato sulla cresta di una duna alta un centinaio di metri e molto ripida e ci ha dato una semplice tavola rettangolare di masonite, dove stendersi con la testa in avanti, e un paio di occhialoni per proteggerci dalla sabbia. Dovevamo soltanto lanciarci giù. La prima discesa è stata decisamente emozionante e con una dose di tensione perché si scendeva a una velocità di circa 80 chilometri orari. Ci siamo limitati a farne una seconda, visto che era faticoso risalire al punto di partenza. E’ stata una giornata intensa.
Con il fuoristrada ci siamo diretti a Walvis Bay per vedere i fenicotteri - ma è stato uno spettacolo deludente in quanto erano pochi - e per rintracciare la duna 7, una delle più alte del mondo. La strada C14 era invasa da una bufera di vento e sabbia, tanto che abbiamo fotografato un treno fermo perché sulle traversine si era formato un cumulo di sabbia che doveva essere spalata.
Alla duna 7 non c’era nessuno, ci siamo arrampicati per circa un terzo della sua altezza osservando i mutamenti creati dal vento.
A Swakopmund siamo stati fermati da diversi italiani incuriositi dal fuoristrada sponsorizzato. Con uno abbiamo parlato un po’. Amelio Bortolus è un friulano con la moglie australiana, dopo aver viaggiato in mezzo mondo ha deciso di stabilirsi a Swakopmund e ha aperto da un anno un ristorante italiano, «Il Tulipano», dove una sera abbiamo cenato (locale di classe, pasta ok, 25 euro in due con il vino). Perché proprio in Namibia? Perché, secondo Amelio, si può investire proficuamente (anche se nel settore imprenditoriale e immobiliare ci sono stati aumenti del 20% in un paio di anni), è sviluppata turisticamente e gode di stabilità economica e politica. Per Amelio è il Mozambico il Paese dei futuri investimenti, ma per il momento i potenziali progetti sono frenati da un’eccessiva corruzione.
Avuto il permesso per attraversare un settore del Namib-Naukluft Park e dormirci (in Namibia non si può accedere a diverse aree, principalmente in quelle in cui si estraggono i diamanti che sono sulla fascia costiera a sud di Luderitz, al confine con il Sudafrica), abbiamo salutato anche Swakopmund. Sulla strada per Bloedkoppie ecco finalmente le welwitschie: sono piante basse con foglie lunghe anche due metri e aggrovigliate che crescono nella pianure ghiaiose dell’aridissimo deserto del Namib in condizioni disperate per l’assenza quasi totale di precipitazioni, eppure possono vivere anche 2.000 anni perché traggono i liquidi fondamentali per il sostentamento in primis dalla condensazione della nebbia.
Un albero strano è il moringa che, come il baobab, sembra avere le radici rivolte verso l’alto. Parlando invece di fauna, lo springbok è un antilope che non teme le condizioni avverse, mentre elefanti del deserto e rinoceronti neri sono praticamente scomparsi. Bloedkoppie non è altro che una collinetta rocciosa in mezzo al deserto, non lontano da una miniera di uranio, dove si può campeggiare e dove ho commesso un grave errore. Ho tenuto accesi radio, aria condizionata e frigoriferino a motore spento con il risultato di far scaricare la batteria. Per fortuna quella sera non eravamo soli, ma c’era anche una coppia attempata di tedeschi così, collegando con i cavi le batterie dei due fuoristrada, il cuore elettrico del mio Land Cruiser ha ripreso vita.
Dovevamo arrivare il prima possibile a Sesriem, la porta di Sossusvlei, ovvero la destinazione più allettante della Namibia, perché non era stato possibile prenotare il campeggio da Swakopmund, ci siamo fermati per immortalare il cartello indicante la linea immaginaria del Tropico del Capricorno e abbiamo avuto un secondo contrattempo legato alla foratura (la seconda del raid), sempre della gomma posteriore destra che stavolta non si è distrutta, ma non c’è stato nessun problema per sistemare la tenda in una piazzola (tariffa salata: 28 euro a cranio per una notte, fuoristrada compreso).
A Sesriem abbiamo conosciuto Sergio, un simpatico trentenne di Barcellona specializzato in viaggi in mountain bike nei deserti di tutto il mondo. Nel 2004 era stato in Sudamerica, nell’estate del 2006 dovrebbe pedalare nel deserto dei Gobi in Mongolia e magari ci vedremo di nuovo. Ha un paio di aziende che lo aiutano economicamente, lui non appena può viaggia e quando rientra in Spagna vende i suoi reportage che sono stati trasmessi anche dalla televisione catalana nazionale. Sergio ci ha domandato se poteva venire con noi la mattina dopo a vedere l’alba da Sossusvlei perché sarebbe stato impossibile per lui arrivare in tempo con la bicicletta. E lo è stato anche con il fuoristrada, come racconteremo.
Per assistere al tramonto ci siamo spostati soltanto di cinque chilometri. Ci siamo arrampicati sulla duna di Elim e tra chiacchiere e fotografie ci siamo attardati, cosicchè abbiamo dovuto scendere al buio rischiando di perderci. Il mattino dopo ci siamo scontrati con una realtà imprevista. I regolamenti consentono di mettersi al volante soltanto un’ora prima dell’alba, ma il problema è che Sossusvlei dista 69 km da Sesriem e che la strada era asfaltata soltanto a tratti per lavori in corso. Esclusivamente presentandoci primi al controllo avremmo potuto forse arrivare in tempo. Ho guidato da incosciente, ma per ammirare il sorgere il sole tra le dune ci siamo dovuti fermare dopo 65 km, ovvero al parcheggio delle macchine a due ruote motrici. Alba bella, ma non indimenticabile, mi stavo ancora rodendo il fegato....
I rimanenti 4 km, riservati ai 4x4, si sono rivelati più duri a causa della sabbia abbastanza alta. Abbiamo camminato un chilometro per arrivare a Deadvlei, il cuore di Sossusvlei, e qui la visione è stata davvero memorabile. E’ un’oasi di fango secco e bianco e di alberi morti che raramente si trasforma in un laghetto (accade quanto il fiume Tsauchab straripa). Circondata da dune rosse, le più antiche e spettacolari del mondo, alte più di 200 metri, con il cielo azzurro compone un quadro da favola come potete immaginare. È uno dei paradisi in cui si potrebbe pensare di restare in eterno, in cui liberare la mente.
E Sossusvlei è soltanto la meraviglia più sbalorditiva di un mare di sabbia che sembra infinito e che il vento modella continuamente formando dune bizzarre. Ma io avevo già nel mirino il Sudafrica. Sivan ha deciso invece di fermarsi un giorno in più a Sesriem per attendere un suo amico israeliano che era nei paraggi. Ci siamo dati appuntamento a Cape Town per una rimpatriata. Il nostro viaggio insieme è durato 23 giorni e ha coinciso con lo spezzone più avventuroso del mio raid africano. È stata una compagna gradevole, una cuoca inappuntabile e mi ha dato una mano preziosa nelle emergenze. Io ho puntato verso sud optando per un percorso alternativo e attraversando strade di privati che concedono l’accesso alle loro terre. Quando davanti a me ho visto lo sterrato sbarrato dal primo cancello mi sono preoccupato, invece non c’era il lucchetto e un cartello diceva di passare pure ma di ricordarsi di richiudere il cancello per evitare la fuga di animali.
La luna è comparsa in cielo a un orario inconsueto, alle 17,30, e il tramonto è stato una catena continua di emozioni. Il sole è tramontato dietro una montagna davanti a me e la luce si è propagata dando al cielo sfumature diverse. Alle mie spalle c’era sempre la luna, a sinistra un nuvolone è diventato rosa e quando la vista si è liberata dei rilievi una striscia arancione che fasciava l’orizzonte mi ha accompagnato verso il buio. Era ormai sera, mi sono fermato ad Aus in un resort cenando nel ristorante del complesso a base di fantasiose specialità tedesche e dormendo sul fuoristrada nella splendida cornice di un campeggio immerso in una natura selvaggia. Il gestore è stato gentile dandomi contanti con la carta di credito: dovevo rifornirmi di gasolio, ma non avevo dollari namibiani sufficienti e non volevo utilizzare i dollari Usa. Il Sudafrica era alle porte e io ero abbastanza eccitato, ormai avevo attraversato quasi tutta l’Africa senza essere frenato da problemi irrisolvibili.
I due ultimi regali della Namibia sono stati il Fish River Canyon, parente povero del Grand Canyon dell’Arizona, e il primo villaggio di capanne che ho visto in terra namibiana, ma ormai ero a due passi dal confine.
(17/01/2006)
© RIPRODUZIONE RISERVATA