Qui in reparto la chiamavamo Principessa, perché era una ragazza molto bella e perché era entrata a 28 anni, e cioè giovane. Le infermiere si erano un po' immedesimate in quella mamma che non aveva la possibilità di veder crescere il proprio figlioletto».
Il ricordo di Giovan Battista Guizzetti, responsabile dell'unità Stati vegetativi del centro Don Orione, dove Antonella Giua era ricoverata dal 2000, non è prettamente tecnico: regala, anzi, dettagli di umanità.
«Si era creato un feeling tra le dipendenti del reparto e lei, del resto come con tutti i degenti - spiega il medico -. In queste unità, se il personale non ci mette il cuore resiste al massimo una settimana».
Nella camera di Antonella fiorivano le foto del figlio Antonio, le frasi scritte da un bambino che in tutti questi anni è diventato ragazzo. Ma la speranza, quella no.
«Non ci siamo mai illusi che potesse recuperare dal punto di vista neurologico - ammette Guizzetti -. In questi casi c'è magari qualcuno che recupera la capacità di coscienza o quella di deglutire. Forse Antonella ha accennato a un recupero delle relazioni con le infermiere che la seguivano. Le ragazze, quando le lavavano i capelli, notavano una smorfia di soddisfazione sul suo viso. E così, quando le davano da succhiare uno spicchio d'arancia. Anche il marito è sempre rimasto molto realista: mi chiedeva solo di non farla soffrire».
Lunedì in reparto, quando Antonella è morta, regnava il silenzio. «Eravamo tutti dispiaciuti - confida Guizzetti -, anche perché col marito e col figlio si era creato un rapporto. Ogni decesso non lo viviamo come sconfitta. E però, siamo dispiaciuti perché Antonella era una presenza. Tredici anni a contatto con una persona: chiaro che poi ti entra nella vita. Anche se in questi casi non c'è comunicazione verbale e gestuale. Noi non sappiamo se e cosa percepiscano i nostri degenti; ma, nel dubbio, li trattiamo sempre come se possano percepire».
S. S.
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