Al capolinea del continente nero

DURBAN (SUDAFRICA) - Eccomi al capolinea del continente nero. Avverto una strana sensazione, non me ne sono quasi accorto, eppure ho attraversato l’Africa. Il fuoristrada non mi ha mai tradito durante il viaggio, ma, controllato in un’officina Toyota di Cape Town, ha mostrato più di una magagna. Colpa probabilmente mia: ho guidato velocemente e con eccessiva disinvoltura su strade sconnesse e forse dovevo dare al Land Cruiser un assetto più da combattimento, mentre invece non ho mutato di una virgola la versione di serie.

Così, dopo 23.000 chilometri, dei quali 6.800 di sterrato, i due bracci dello sterzo e le sospensioni erano ko, il telaio si è addirittura spezzato in tre punti per le conseguenti e violente sollecitazioni, così è stato saldato, e la pompa dell’acqua aveva una lieve perdita. Ho dovuto cambiare anche due gomme e ripararne una terza (1.800 euro in totale compreso un controllo generale).

Di Cape Town ricorderò la posizione spettacolosa tra l’Atlantico e la Table Mountain, l’atmosfera rilassante e ogni metro della strada che dal quartiere di Observatory (ho dormito in una casa vittoriana trasformata in bed breakfast) conduce all’officina. I primi giorni sudafricani li ho dedicati alla Toyota e all’organizzazione della trasferta sudamericana. Ho prenotato il volo per Buenos Aires (660 euro con la Malaysian Airlines) e sto accordandomi per la spedizione via nave del fuoristrada (2.200 euro più tasse esorbitanti ma ancora imprecisate da pagare in Argentina, si parla di 1.250 euro). Intanto, ho salutato la compagna di viaggio israeliana in Namibia e a Cape Town è arrivata dall’Italia una mia amica con cui sto girando il Sudafrica.


Con il racconto ero rimasto in Tanzania. Conclusa l’esperienza al Villaggio della Gioia e trascorse due notti alla casa dei padri passionisti di Dar Es Salaam, dove padre Aloysisus si è rivelato un simpatico e prezioso supporto, al momento della partenza mi sono sentito improvvisamente libero. Fino in Tanzania il viaggio era stato più o meno programmato, avevo obiettivi e scadenze abbastanza precisi, in Zambia e Zimbabwe sarebbe stato un mezzo mistero, anche perché ero senza lo straccio di una guida. Per lo Zambia avevo il parziale indirizzo di una suora bergamasca nella capitale Lusaka, per lo Zimbabwe l’aggancio del Cesvi, ma l’incognita del carburante, molto difficile da reperire per il collasso economico del Paese governato dal tirannico Mugabe. Il prossimo appuntamento fisso, rappresentato dall’arrivo della mia amica in Sudafrica, era lontano più di un mese, avrei potuto gestirmi senza vincoli.

La prima tappa di avvicinamento allo Zambia è stata Dar Es Salaam-Iringa. Sono stato frenato da un incidente tra due daladala, i minibus tanzaniani che caricano una montagna di persone e sfrecciano a velocità folle. Nessuna grave conseguenza. La gente stava ancora scendendo dai pulmini che era già assediata dai venditori ambulanti. La strada attraversava il parco Mikumi, così ho dovuto nuovamente rallentare, c’erano elefanti, giraffe e antilopi in circolazione. Il tramonto è stato da brividi, mi sono infilato in una valle stretta e un fiume correva parallelo: davanti a me è tramontato il sole tra due montagne. Il cielo è diventato rosso fuoco, il fiume scintillava per i riflessi della luce, i baobab sembrava che s’incendiassero. È spuntata la luna, sono comparse le stelle. Ed è stata una serata indimenticabile in cui felicità e un briciolo di malinconia si sono mescolati.


A Iringa avevo come riferimento il campanile più alto della città. Era della parrocchia della Consolata, potevo dormire lì, come da accordi telefonici. I padri sono stati molto gentili. Marco Turra, lecchese di Rovagnate, un seminarista, mi ha cucinato due uova al tegamino e la cena è diventata regale con una birra e con formaggio e salame italiani. Marco mi ha regalato «Ebano» del polacco Kapuscinski, un libro sull’Africa. Padre Angelo Pizzaia di Treviso mi ha parlato dell’errore dei vescovi africani che sono contrari a una lingua unitaria per l’Africa, lingua che invece sarebbe utile per attenuare i contrasti tribali. Il suo sogno è di fare il cappellano per un anno su una nave da crociera. A colazione ho conosciuto pure il superiore regionale, padre Giacomo Baccanelli, bresciano della Valle Camonica. La loro opera a Iringa e nei villaggi è prevalentemente pastorale, ma aiutano materialmente la popolazione per quanto possono ingegnandosi per raggranellare soldi. Si dedicano alla casa per bambini orfani, vanno in ospedale e in prigione per dare conforto morale. La mattina dopo, nel cortile della chiesa, è stato distribuito latte alle donne in fila.


Non so perché la Tanzania non abbia ancora espresso un ciclista di valore. Vanno tutti in bicicletta caricando pesi non indifferenti. I ragazzini si divertono con skateboard in legno o con macchinine in latta trainate con un filo. I prodotti di artigianato come le ceste di paglia sono appese sui rami che danno sulla strada, impossibile non vederle. L’attraversamento del confine di Tunduma è stato tormentato da una serie di loschi personaggi che volevamo aiutarmi nelle pratiche burocratiche, nonostante non ne avessi bisogno, per scucirmi qualche scellino. Mi si sono appiccicati addosso fin dalla frontiera tanzaniana, quando sono entrato in Zambia volevano che stipulassi un’assicurazione per il fuoristrada, ho domandato a un poliziotto se fosse necessaria e lui mi ha risposto che probabilmente lo era, ma non sapeva quanto costava. Quando i procacciatori d’affari mi hanno parlato dell’equivalente di 160 euro (io parlo sempre di euro, ma nella realtà è moneta locale o dollari statunitensi) ho intuito che era una truffa, ho sbattuto loro la portiera in faccia e ne se sono andato.

Una mezza fuga che non mi ha consentito di cambiare i soldi e non mi ha chiarito se l’assicurazione fosse realmente obbligatoria. Un dubbio che mi ha assillato durante la permanenza in Zambia creandomi diversi contrattempi. Quel giorno la polizia mi ha fermato due volte e il primo documento che volevano vedere era l’assicurazione. Io davo il passaporto, la patente internazionale e infine, quasi nascosta, la mia assicurazione italiana. L’ho sempre scampata. In Zambia tutte le arterie principali sono asfaltate, c’è l’insana moda di bruciare l’erba alta per scopi che non ho ancora scoperto di preciso (nessuno mi dà una risposta esauriente, probabilmente per preparare il terreno alla semina), le capanne circolari sono abbellite da semplici decorazioni sui muri esterni, le donne hanno quasi sempre un pargoletto che legano sulla schiena con uno scialle e ci sono uomini che girano in bicicletta per i villaggi con giacca e cravatta. La prima notte l’ho trascorsa a Isoka, in una guesthouse che regalava preservativi all’entrata.

Lo Zambia è uno dei Paesi con la minor aspettativa di vita al mondo, appena 35 anni. E l’Aids incide molto nel disastro. Alle 19 blackout. È successo diverse volte, sempre alla stessa ora, con la luce che si riaccendeva verso le 21. Mi hanno spiegato che non è per scarsità di risorse, lo Zambia presta energia elettrica ai Paesi limitrofi e resta senza per un’errata gestione. Ho dovuto cambiare i miei dollari in un distributore e ho scoperto amaramente che il prezzo del carburante è su livelli italiani: un litro di gasolio nelle aree più remore, come è Isoka, costa 6.200 kwacha, ovvero poco più di un euro. Il giorno dopo ho dovuto pagare ancora il carburante in dollari a un cambio sfavorevolissimo, ma non avevo alternative. Era domenica e nelle banche non c’era lo sportello automatico per il prelievo di contanti. Sono stato ancora fermato, l’assicurazione italiana non è stata ancora notata, ma non avevo le cinture di sicurezza allacciate e il triangolo. Infrazioni per le quali avrei dovuto pagare una multa di 56 euro, un’enormità in Zambia. Erano poliziotti disonesti che volevano fregarmi. Io non mi sono impuntato perché temevo un ulteriore controllo all’assicurazione, ma ho strappato uno sconto e ho pagato 24 euro, senza naturalmente nessuna ricevuta.

Da quella volta uso sempre le cinture di sicurezza. Il rebus assicurazione è diventato una psicosi, nei due successivi controlli fortunatamente la polizia non era interessata ai miei documenti, ma voleva soltanto una coca-cola e un libro in inglese o in italiano. Finalmente a Kabwe ho potuto prelevare contanti e non ho bruciato più i miei dollari.

Sono arrivato di sera a Lusaka, dopo 957 km di paesaggio monotono (per il momento è la tappa più lunga del viaggio), ho tentato di rintracciare la casa provinciale delle suore comboniane, il Daniel Comboni Convent, nel quartiere di Makeni, dove operasuor Maddalena Manenti (qui a lato nella foto), ma non avevo il nome della via e dunque ho desistito e dormito in una guesthouse (18 euro a notte con la colazione: una bontà le fragole fresche), il cui gestore era stato gentile nell’accompagnarmi alla ricerca della comboniana bergamasca.

Con il suo aiuto ho potuto perlomeno parlare al telefono con la suora e accordarmi per il mattino dopo. Era a due passi , ma sarebbe stata impossibile da rintracciare, visto che non c’era nessuna indicazione per motivi di sicurezza. Suor Maddalena, 57 anni, originaria di Oltre il Colle, è in Africa da 28 anni (10 in Sudan tra Khartoum e Malakal e 18 in Zambia tra Kaparo, Lusaka e Zambesi) ed è responsabile delle suore comboniane da giugno. È una donna molto solare che trasmette serenità. E’ reduce da sette anni a Zambesi, cittadina di un’area rurale quasi al confine con l’Angola, dove era incaricata dell’assistenza a domicilio dei malati terminali di Aids. A Lusaka si sente meno utile non essendo a contatto con chi ha bisogno.


Suor Maddalena lavorava all’ospedale Maggiore di Bergamo come infermiera, ma a 23 anni ha sentito che le mancava qualcosa. Ha scoperto che quel qualcosa era la vita missionaria e a 26 è diventata suora specializzandosi in ostetricia. Abbiamo conversato in veranda principalmente del problema dell’Aids che sta falcidiando lo Zambia e l’Africa. Secondo lei non è tanto un problema di informazione o di fondi, quanto di mentalità. La lotta contro l’Aids non ha un grande impatto perché, perlomeno in Zambia, c’è una strana filosofia di vita: prima o poi bisogna comunque morire e allora perché preoccuparsi? Per la gente, che in prevalenza è animista, la malattia non ha una spiegazione razionale, si rifiuta sistematicamente la realtà legata alla malattia. Si muore di Aids? No. Quando muore qualcuno di Aids, o anche per una causa diversa, i parenti della vittima vanno dallo stregone del villaggio che indica il colpevole, colui che avrebbe causato misteriosamente la morte, e questa persona deve pagare un indennizzo che versa anche se naturalmente non ha nessuna colpa. Quando morirà un suo parente si rifarà con qualcun altro. Sembra incredibile ma è cosi. E non è una credenza popolare circoscritta e causata dall’ignoranza. (nella foto le erbe medicinali usate per curarsi)


Ecco un esempio illuminante. A un catechista zambiano che suor Maddalena conosceva bene e che era istruito morì un figlio di malaria, esattamente un anno dopo gliene morì un altro ancora di malaria, lo stregone ribadì che il colpevole era sempre un vecchio che avrebbe ucciso pure la moglie l’anno dopo e il catechista, per timore che ciò si avverasse, uccise il vecchio. Suor Maddalena mi ha invitato a pranzo e regalato un vasetto di noccioline. Si sta tenendo informata su mio raid, l’ho sentita recentemente per e-mail.

A Lusaka sono stato due giorni e tre notti, il tempo di visitare la suora, riposare, pensare allo Zimbabwe, tentare inutilmente di cambiare i travelers cheques in dollari Usa e non in valuta locale e annusare l’aria che tira nella capitale.

Lusaka è la classica grande città africana, con quasi nulla d’interessante da visitare, che tenta di imitare il modello occidentale di metropoli con grandi centri commerciali (e prezzi europei) e i suoi abitanti di conseguenza tentano di rincorrere il nostro stile di vita, anche se hanno uno stipendio da fame (la classe media guadagna circa 100 euro al mese con il recente aumento). Così magari fanno i salti mortali per mangiare, ma hanno il telefonino. E naturalmente è stridente il contrasto tra i palazzi luccicanti del centro e le baraccopoli di lamiera. A Lusaka sono divisi praticamente da nulla.


Suor Maddalena mi aveva parlato dell’ospedale di Chirundu (qui sopra): era proprio sulla mia strada, al confine con lo Zimbabwe, per me sarebbe stata un’esperienza interessante e probabilmente avrei potuto conoscere un’altra suora bergamasca. Dal Cesvi ho avuto notizia del perdurare del problema del carburante, ma ho deciso di rischiare. Con il pieno di 90 litri e con 80 litri supplementari nelle taniche sarei arrivato nella capitale Harare, l’autonomia sarebbe stata probabilmente insufficiente per visitare Victoria Falls ed entrare in Botswana (1.500 km in totale; su asfalto e a 100 km orari il mio Land Cruiser 3.000 turbodiesel percorre quasi 8 km con un litro di gasolio), ma confidavo in Zimbabwe di rifornirmi al mercato nero.

Problemini pure in Zambia: per un guasto a una raffineria la benzina stava per essere temporaneamente razionata. Ero quasi arrivato a Chirundu quando sono stato fermato per l’ennesima volta per un controllo. Stavolta mi è stata contestata l’assicurazione italiana, come temevo. Volevano multarmi, io ho tergiversato, raccontato ai due poliziotti che era comunque valida, che nessuno aveva mai avuto da ridire e che ero amico di Paolo Marelli, il dottore italiano dell’ospedale. In realtà conoscevo soltanto il suo nome, ma così ho superato indenne il controllo.

All’entrata del Mtendere Mission Hospital mi hanno comunicato che il dottor Marelli era in Italia in vacanza, ho domandato se potevo parlare con una suora e si è presentata con un sorriso suor Giovanna Redolfi (sotto).


Sono stato fortunato, era bergamasca, di Cologno al Serio. Ho dormito da solo in una dependance della casa delle suore di Maria Bambina. Erano in sette: c’erano pure una suora bresciana, Eleonora Liberini di Nave, una maltese e quattro indiane, tra cui una dottoressa. A Chirundu ho sofferto il caldo come non avveniva dall’Egitto: più di 30 gradi.

Con suor Giovanna ho visitato l’ospedale, uno dei più moderni dello Zambia. Sostenuto economicamente dal Centro diocesano ambrosiano, è all’avanguardia per la lotta all’Aids, le ricerche tumorali, gli esami sulle funzionalità renali ed epatiche ed è collegato al Niguarda di Milano per la telemedicina. L’artefice del suo sviluppo è Paolo Marelli, 56 anni di Cantù, a Chirundu dal 1997 dopo vent’anni di Burundi. Il Mtendere ha 150 posti-letto, quattro reparti (medicina, chirurgia, maternità-ginecologia e pediatria), quattro medici e quattro paramedici che visitano i pazienti (150 in media al giorno) e prescrivono loro le medicine (mezzo euro a trattamento) e quaranta tra infermieri e tecnici. Esiste inoltre un consultorio per dare informazioni sull’Aids e per le vaccinazioni ai bambini da 0 a 5 anni. L’Aids è curato con i farmaci antiretrovirali, donati da diversi Paesi, e i pazienti pagano un contributo per le spese di laboratorio. A Chirundu la piaga è diffusissima per la prostituzione legata alla presenza di camionisti.

L’ospedale è una miniera di casi pietosi. Olimbo è un bambino di 7 anni con gravissime ustioni sull’80% del corpo: la madre in un raptus di follia l’ha incendiato e lui è vivo per miracolo. Ben, 10 anni, ha la cirrosi conseguenza della malaria: periodicamente si gonfia di acqua, potrebbe salvarlo soltanto un trapianto. Owen, 15 anni, è malato di Aids. Teresa, 12 anni, ha la tubercolosi spinale ed era a letto da un mese, inferma. Gumbo, uomo dall’età imprecisata, è senza mani e piedi per la lebbra.


C’era un ladro a cui la polizia aveva sparato a un polmone in condizioni disperate, così come un agricoltore a cui un toro aveva sventrato l’intestino. Suor Giovanna mi ha consentito di conoscere anche la realtà delle case-famiglia dove vivono 53 orfani dai 3 ai 12 anni: sono amorevolmente assistiti e hanno un parco in cui giocare. Con suor Eleonora ho invece trascorso due ore splendide nell’oratorio della parrocchia, che dà sul fiume Zambesi, dove ci sono le aule della scuol (la prima fu costruita assemblando due container, qui sotto) e un campo da calcio.


C’era una marea di gioventù sorridente e scalpitante. Un centinaio di bambini va all’asilo, circa 350 frequentano le classi dalla 1a alla 7a. Molti sono qui perché le scuole governative sono insufficienti. Sul sagrato della chiesa musicisti e donne si esercitavano con passione per cantare durante la messa. Chirundu è una cittadina che vive di agricoltura e pesca. Solo doganeri, maestri e infermieri vivono decentemente. I poveri sperano nella pioggia per fare almeno un raccolto di granoturco e sfamarsi con la polenta che è l’alimento-base di mezza Africa.

Dopo la cena, suor Giovanna mi ha raccontato la sua storia con molta umiltà. Ha 61 anni e sei tra fratelli e sorelle. Lavorava alla clinica Zucchi di Monza come inserviente e nel 1965 è entrata nell’istituto di Maria Bambina. Dal 1972 al 1985 è stata all’ospedale di Vimercate come caposala e insegnante e dal 1986 è capo del personale e membro del comi tato dell’ospedale a Chirundu. Lei non avrebbe mai domandato di essere inviata in una missione, è stata un’idea della superiora. E Suor Giovanna ora è felice tra i suoi bambini e i suoi pazienti.

All’alba colazione, un abbraccio alle suore e via verso il confine, distante un paio di chilometri. La strada polverosa al fianco del mercato erano già parzialmente ostruita da una fila di camion mastodontici, ma li ho superati in dribbling. Tutto ok alla frontiera dello Zambia, ho attraversato il ponte sullo Zambesi e sono entrato in Zimbabwe, uno dei Paesi più sconcertanti e allucinanti del mondo in questo momento.Marco Sanfilippo

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