Medico, sposato con tre figli, presidente nazionale dell'Aisla, l'Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica, Melazzini è appunto malato di Sla, una malattia degenerativa che colpisce il sistema nervoso e soprattutto i neuroni del movimento, senza incidere, di regola, sulle funzioni cognitive. Ieri pomeriggio, presso la Sala Alabastro del Centro Congressi Giovanni XXIII, di fronte a un folto pubblico, Melazzini ha partecipato a un incontro promosso dalla Libreria Buona Stampa insieme a un suo compagno di malattia, don Roberto Pennati, sacerdote bergamasco del Patronato San Vincenzo, che pure, recentemente, ha pubblicato un volume, «Il canto sottile del fieno maturo.
Storia di Patrizio» (il racconto dell'accompagnamento a un ragazzo affetto da Aids, morto nel 1994). Non poteva ridursi a una presentazione editoriale, evidentemente, questo incontro: rispondendo alle domande poste da Alberto Ceresoli, caporedattore de L'Eco di Bergamo, i due ospiti sono tornati più volte sulla vicenda che in questi giorni ha agitato le coscienze di moltissimi italiani. A suo tempo, commentando la sentenza della Corte d'appello di Milano che autorizzava la sospensione dell'idratazione e dell'alimentazione artificiali a Eluana Englaro (raccomandando nello stesso tempo, per evitarle un possibile disagio, che le venissero «umidificate le mucose»), Melazzini aveva fatto ricorso a un'immagine forte.
«Mi viene in mente Cristo sulla croce - aveva detto -: a lui passarono sulla bocca una spugna imbevuta di aceto». «In questi giorni - ha detto ieri - siamo stati subissati di parole. Mi sono sentito violentato, come essere umano, come malato e come medico. Si è invocato il principio della libertà personale, dell'autodeterminazione, per giustificare un atto di abbandono. Noi medici sappiamo benissimo quando l'idratazione e l'alimentazione artificiali sfociano nell'accanimento terapeutico, e non ci sogneremmo di imporle a un paziente agonizzante: ma Eluana non era affatto una malata terminale, era una persona gravemente disabile, le cui condizioni di vita potevano essere considerate "indegne" solo in base a una visione utilitaristica dell'esistenza umana.
Nella visione di molti "benpensanti", la vita finisce per assomigliare a una patente a punti: questi ti vengono sottratti man mano che non sei più in grado di espletare determinate funzioni, finché - oltrepassato un certo limite - il documento non ti viene ritirato. Per quanto concerne poi il presunto "diritto di morire": la verità è che oggi, in diverse regioni italiane, i malati di Sla e di altre gravi patologie non sono in grado di esercitare il loro diritto alla vita, che rientra - questo sì! - tra i "diritti inviolabili dell'uomo", come recitano gli articoli 2 e 32 della Costituzione.
Su questi malati e le loro famiglie, che non chiedono pietismo ma un'effettiva solidarietà, dovrebbe portarsi l'attenzione dell'opinione pubblica e dei media». Don Pennati già mercoledì 4 febbraio, in un'intervista all'Eco («No ai muri, ma questa è eutanasia»), aveva espresso il proprio giudizio su quello che molti organi di stampa hanno definito «il caso Englaro»: «Gli eventi degli ultimi giorni - ha aggiunto ieri - mi hanno lasciato sconvolto, nonostante mi fossi prefisso di non lasciarmi troppo coinvolgere sul piano emotivo. Sono contento di una cosa, però: dell'atteggiamento di partecipazione e affetto con cui la gente di Paluzza, il paesino della Carnia dove è stato celebrato il funerale di Eluana, ha accolto il suo feretro; l'hanno aspettata per poterla accarezzare, idealmente, e "metterla tranquilla"».
Don Pennati ha poi parlato, con molta serenità, della sua situazione personale di malato, affetto da una patologia «a prognosi infausta»: «Per me - ha spiegato - un periodo di tre mesi equivale a cinque anni di una persona sana. Non so nemmeno a che punto io mi trovi, nel percorso che ho intrapreso tredici anni fa, quando mi fu diagnosticata la Sla. Tuttavia, non mi viene spontaneo pensare a me stesso come a "un malato": io rimango Pennati Roberto, anche se, certo, sono sempre più limitato nei miei gesti e, ad esempio, per raggiungere una poltrona ho bisogno di persone che mi sollevino e mi ci portino. È importante, in ogni caso, la consapevolezza che la persona non è cancellata dalla malattia, non è privata della sua identità. Il testamento biologico? Beh, io ritengo che la polenta si debba mangiare una fetta alla volta, e a quella fetta, personalmente, non credo di essere ancora arrivato. Questo non significa che non abbia riflettuto sulla questione. In realtà, sono circondato da parenti, amici, medici curanti con cui ho discusso spesso i diversi aspetti della mia situazione: ritengo perciò che potrebbe anche non essere necessario, per me, formalizzare le mie "volontà di fine vita", per avere la certezza che quanto dovrà avvenire avvenga in modo umano e dignitoso». Da parte sua, Melazzini ha invece ricordato («con un po' di fatica e di vergogna») come, nella fase iniziale della sua malattia, fosse stato tentato di ricorrere al suicidio assistito: "Non riuscivo ad accettare che la Sla danneggiasse il mio corpo, mi facesse ciò che, da medico, le avevo visto fare ad altri malati. Contattai per posta elettronica un'associazione svizzera, la Dignitas, per informarmi sulla possibilità che mi aiutassero ad uccidermi. Mi risposero che il mio caso era stato giudicato "compatibile con la procedura": fu questo approccio "professionale", cosa di cui loro vanno orgogliosi, a lasciarmi costernato. Cambiai idea e gradualmente scoprii che la vita di un disabile grave può essere degna quanto quella di qualsiasi altra persona, a condizione che non lo si lasci solo»".
«A Milano - prosegue -, grazie alla collaborazione congiunta dell'Aisla e dell'Uildm (Unione italiana lotta alla distrofia muscolare), è stato aperto il Nemo, un "centro d'eccellenza" per la cura delle malattie neuromuscolari. Bene, in tale occasione abbiamo somministrato ai pazienti un questionario in cui chiedevamo, sostanzialmente, che cosa si aspettassero da un centro del genere: più dell'80 per cento degli intervistati ha risposto che desiderava, per prima cosa, "un luogo in cui gli si prestasse ascolto". Ecco, è la capacità di attenzione e di ascolto, oltre alle competenze tecniche, che un malato grave chiede al medico e al personale infermieristico. Qualche tempo fa, in uno studio scientifico (pubblicato dallo psichiatra americano Harvey Max Chochinov, ndr.), ho trovato espressa precisamente quest'idea, e cioè che la dignità del malato terminale sarebbe affidata "allo sguardo di chi lo ha in cura".
È una tesi documentata "laicamente", scientificamente, e che - a mio avviso - viene perfettamente integrata da una frase di Joseph Ratzinger: "Lo sguardo che liberamente accetto di volgere all'altro decide della mia stessa dignità". Confrontandoci serenamente con la malattia, con la fragilità, tutti noi possiamo comprendere qualcosa di più sulla nostra comune condizione di esseri umani».
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