di Alberto Ceresoli
Se il buon giorno si vede dal mattino, non c'è molto da stare allegri. La proposta di riforma del Servizio sanitario lombardo che da alcuni giorni agita le acque nel mondo politico regionale - dentro e fuori la maggioranza - non è che un insipido «aperitivo» di quello che dovremo sorbirci nei prossimi mesi.
Al progetto del leghista Fabio Rizzi - estremamente generico in molti punti, eccessivamente puntiglioso in pochi altri, scarsamente utile nel suo complesso - faranno quasi certamente seguito altre bozze di lavoro stilate dai partiti che reggono il Pirellone.
La speranza è che «dentro» ci sia qualcosa di più concreto di quanto presentato da Rizzi. Non per spirito di campanilismo, ma l'idea di accorpare l'Asl di Bergamo - oltre un milione di persone - con quella di Brescia - quasi un un milione e trecentomila - non può certo definirsi brillante: a questa stregua, tanto vale far gestire tutto ad un'unica «agenzia» con sede a Milano.
Tralasciamo poi che alla siffatta «Asl delle Orobie» (l'accorpamento, per inciso, avrebbe costi iperbolici) si aggiungerebbe una fantomatica «Asl della Montagna», comprendente la Valtellina, la Valcamonica e la Valchiavenna. Evidentemente Mezzoldo - piuttosto che Schilpario o Clusone - sono stati «estradati» in pianura. E che dire dell'articolo 20 (quasi due pagine), tutto dedicato all'«utilizzo del cadavere per la ricerca scientifica»? Meglio non dire nulla...
A parte che di quelli di Lovere e Piario non c'è traccia, si potrebbe invece discutere sulla riorganizzazione degli ospedali, laddove - per la nostra provincia - si prevede la cancellazione dell'azienda ospedaliera Bolognini, che darebbe al «Papa Giovanni XXIII» i presìdi di Seriate, Alzano, Trescore, Sarnico e Gazzaniga. Inoltre l'azienda di Treviglio cederebbe a Bergamo il presidio di San Giovanni Bianco.
Il tema di una così forte concentrazione di ospedali pubblici in una manciata di chilometri come quelli che separano Bergamo, Seriate e Alzano è sul tappeto da tempo, così come quello della creazione di una vera rete ospedaliera provinciale (non di patologia), ma nonostante siano stati spesi fiumi di parole, siamo lontanissimi da una qualsiasi soluzione. Forse uno dei punti più qualificanti di un nuovo progetto di riforma del Servizio sanitario regionale sarebbe proprio quello capace di dare alle Asl quel potere che la Legge 31 aveva previsto, ma che - nei fatti - non è mai stato concesso.
L'autonomia di ogni singola azienda ospedaliera non consente grandi intromissioni, se non direttamente da Milano. L'unificazione di tutti gli ospedali in un'unica azienda ospedaliera provinciale potrebbe servire allo scopo? Forse. Ma se dal punto di vista delle economie di scala potrebbe garantire sostanziosi risparmi, la mai dimenticata applicazione del manuale Cencelli nell'assegnazione degli incarichi politici creerebbe più di un problema...
Certo che riformare il miglior Servizio sanitario regionale d'Italia (e ai primi posti nel mondo, com'è quello lombardo) non è impresa facile. Ecco perchè sarebbe meglio aggiustare quel 20% che non va, piuttosto che rischiare di far saltare il banco. Lo sforzo prioritario deve necessariamente orientarsi a garantire una forte, fortissima, assistenza sul territorio.
Dato per scontato che gli ospedali si devono occupare della fase acuta della malattia, è necessario che il Sistema sanitario garantisca a chi ne ha bisogno la gestione di quella delicata fase di transizione tra la dimissione dall'ospedale e il rientro a casa in condizioni di autonomia (laddove possibile).
Rispetto al passato qualcosa è stato fatto, ma rispetto ai bisogni reali, molto resta ancora da fare. È questa la vera sfida che i malati lanciano alla medicina territoriale: sottovalutarla o - peggio - ignorarla, sarebbe un odioso segno di inciviltà. Altro tema irrinunciabile è la cura e l'assistenza delle cronicità, legato peraltro a doppio filo al precedente.
I progressi della medicina hanno sensibilmente allungato la vita dell'uomo, ma tutto ciò pone una serie di problemi non indifferenti, soprattutto se messi in correlazione a quelli provocati da una crescita demografica ferma allo zero o poco più. La scomparsa della famiglia patriarcale ha «sgonfiato» un formidabile «cuscinetto sociale»: oggi la famiglia «monofiglio» non è più in grado di prendersi carico dei nonni prima e dei genitori dopo, ma questo «vuoto» assistenziale deve essere necessariamente colmato, anche in considerazione del fatto che il fenomeno «badanti» (complice la crisi) sembra aver iniziato la sua curva discendente. Da qui a un vero rafforzamento dei servizi sociosanitari (disagio psichiatrico compreso) il passo è breve. Ma necessario.
Su tutto ciò aleggia - pesantissimo - il tema delle risorse finanziarie. Tagliuzzare qua e là si può, ridurre gli sprechi un po' qui e un po' lì anche, ma di risorse ne servono molte, moltissime. Perchè ora è necessario mettere mano anche ai «drg» (il rimborso economico agli ospedali delle prestazioni sanitarie fornite al malato) se si vogliono davvero intercettare fino in fondo i nuovi bisogni della nostra società.
Un esempio? La neurologia. L'allungamento della vita da una parte e i «cocktail» di alcol e droga ingeriti dai giovani d'oggi dall'altro faranno crescere in misura esponenziale i malati di Parkinson e di Alzheimer, ma gli ambulatori ospedalieri - già oggi - non sono in grado di affrontare adeguatamente il problema.
Il pubblico «nicchia» e il privato accreditato (di cui oggi è impensabile fare a meno, tale è la sua integrazione nel sistema) non spinge certo su una prestazione (la prima visita neurologica) che viene pagata 22 euro e 50 centesimi! «Alleggerire» qualche altro «drg» sembra impossibile, ma i bisogni in questa direzione sono fortissimi e vanno soddisfatti. E la qualità? La qualità costa. Ci siamo capiti...
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