Così soli, così fragili
di fronte alla morte

di Alberto Carrara
Il dramma di viale Giulio Cesare è di quelli che, senza nessuna esagerazione, sconvolgono: una giovane mamma, Alessia Olimpo, uccide la sua figlioletta, di appena un anno e mezzo, poi si suicida. Tra le ragioni del gesto drammatico - la notizia è di ieri - sembra che la signora Alessia non fosse riuscita a superare il pesante dolore per la morte della madre. Dunque, il dolore per la morte fa morire. E la cosa è ancora più impressionante se si considera che la catena della morte, se così si può dire, passa attraverso la figura materna: è la madre che porta alla morte la figlia.

Questo viene a cozzare violentemente contro le immagini, le tenerezze abituali con le quali circondiamo la figura materna. La madre che dà la vita, qui è colei che la toglie. Naturalmente, si vorrebbe trovare qualche ragione. Le indagini in corso forse ci arriveranno. Ma non riusciranno mai a «spiegare». La distanza fra il dramma e le ragioni che possono averlo fatto deflagrare, non si riempirà mai. Ci si trova spesso investiti da tragedie di fronte alle quali «non c'è nulla da fare». E più la tragedia è grande, più è grande il senso di impotenza. Uno tsunami, un terremoto, un'inondazione capitano e basta. Si può solo rimediare alle devastazioni. Quando una tragedia nasce da uno sconquasso dell'animo umano, lo smarrimento è ancora maggiore. Anche perché è impossibile trovare colpe.

Che colpe può avere la giovane mamma che si accanisce sulla sua figlioletta? Anche lei, in fondo, è vittima. Esiste, dunque, un male più grande di noi. Così abituati a parlare di libertà e di responsabilità, dobbiamo prendere atto che avvengono tragedie dove è impossibile sia distribuire colpe che trovare responsabilità. Da tragedie come queste può venire, al massimo, qualche semplice ammonimento. Il nostro giornale di ieri ha pubblicato una foto con l'altissima scala mobile che i vigili del fuoco hanno dovuto usare per entrare nell'appartamento di viale Giulio Cesare. Quella scala così alta, mi ha fatto venire in mente come spesso, nelle nostre città, si è lontani gli uni dagli altri anche quando si è vicini. Certamente la signora Alessia aveva i suoi affetti importanti, la sua famiglia, i colleghi, gli amici. Ma non sono bastati.

La vita e le sue grandi euforie - matrimoni, nascite... - ma soprattutto, la morte e le sue devastazioni si possono vivere decentemente solo se sono condivise. Invece succede spesso che la vita viene celebrata male perché si è in pochi e la morte è devastante perché la si affronta da soli. La famiglia e il cerchio dei soliti amici non bastano più. Manca troppo spesso lo spazio intermedio. Come se, per raggiungere gli altri, avessimo sempre bisogno di enormi scale da pompieri.

Così mi è tornato in mente, in questi giorni che sentono ancora di Pasqua, il passaggio del vangelo di Giovanni che racconta l'apparizione del Risorto alla Maddalena. La Maddalena «stava all'esterno vicino al sepolcro e piangeva». Mentre è ancora in lacrime guarda dentro il sepolcro da dove il corpo di Gesù è sparito. Pensa che l'abbiano trafugato. Vede due angeli ai quali non sa chiedere altro che nuove informazioni su quello strano trafugamento. Appare anche Gesù ma la Maddalena non riconosce neppure lui e anche a lui ripete la stessa domanda. Poi Gesù la chiamerà per nome e allora, solo allora, quando il legame con il Risorto si sarà ristabilito, gli occhi della Maddalena si apriranno. Le domande di fronte a drammi come quelli della signora Alessia, sono il pianto della Maddalena.

Non si riesce a far altro che lasciarsi calamitare dalla morte. Per uscirne bisogna che qualcuno, da fuori il sepolcro, ci chiami e ci offra una relazione nuova. E quella chiamata, solo quella, può dare senso anche a ciò che prima appariva soltanto insensato.

Alberto Carrara

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