È ora di dare una spinta
al recupero dei vecchi Riuniti

di Alberto Ceresoli
Comunque lo si voglia vedere – mezzo vuoto o mezzo pieno – nel bicchiere del nuovo ospedale qualcosa c'è. Certo, ci potrebbe essere di più e di meglio, ma ciò significa che indietro non si può tornare.

di Alberto Ceresoli
Comunque lo si voglia vedere – mezzo vuoto o mezzo pieno – nel bicchiere del nuovo ospedale qualcosa c'è. Certo, ci potrebbe essere di più e di meglio, ma ciò significa che indietro non si può tornare e che, di conseguenza, l'unica direzione da seguire deve essere quella che porta in avanti, lontano dalla precarietà dei giorni del trasloco. Al «Papa Giovanni» restano ancora mille cose da fare, ma continuare a sottolinearle – anche da parte di chi avrebbe dovuto condividere alcune scelte della direzione generale e di quella sanitaria, ma non l'ha fatto per una propria latitanza – non serve a nulla, se non ad alimentare inutili polemiche.

Le magagne ci sono (alcune piccole, altri grandi, forse più il frutto di finiture fatte in fretta e al ribasso piuttosto che di scelte progettuali in senso stretto) e vanno sistemate in tempi ragionevoli, così come il completamento delle opere mancanti (centro trasfusionale, centrale di sterilizzazione, sale operatorie...) va fatto al più presto, proprio perchè nell'arco dei sei mesi o un anno (ma non di più!) il «Papa Giovanni» torni ad essere quell'azienda ospedaliera di rilievo nazionale che nell'ultimo decennio l'ha collocata tra le migliori d'Europa, almeno per alcune specialità mediche e chirurgiche.

Nel frattempo, però, è necessario che si continui a guardare in avanti anche sul fronte del rinnovamento, del potenziamento e dell'innovazione, facendo quelle scelte – in primis quelle relative ai primariati ancora vacanti o che lo saranno presto – capaci di rilanciare l'ospedale come una delle migliori strutture europee per la cura dei malati.

Se dalle parti della Trucca è bene che non ci si volti più indietro, a largo Barozzi deve invece guardare tutta la città (e non un solo quartiere), perchè ogni giorno che passa l'area del vecchio ospedale diventa un problema sempre più difficile da risolvere. La spiegazione è semplice. Anche se l'asta bandita a dicembre ha messo in vendita i «Riuniti» a quasi 20 milioni in meno rispetto al prezzo del bando del 2009, gli oltre 76 milioni richiesti – che già di per sè rappresentano una cifra ragguardevole – sono destinati a risultare insostenibili in un momento in cui il mercato immobiliare è al suo minimo storico e dove persino le banche faticano a reggersi in piedi.

Ai milioni destinati all'acquisto dell'area, inoltre, il vincitore dovrà aggiungerne altri (e non pochi) per la necessaria bonifica di quelle zone del vecchio ospedale «inquinate» da scorie e rifiuti tossici, come ad esempio quelle occupate dalla Medicina nucleare, dall'Anatomia patologica, dagli Infettivi, dalla Microbiologia piuttosto che dalla Radiologia o dalla centrale di sterilizzazione.

Poi bisognerà demolire (altri costi significativi) per poi finalmente cominciare a costruire oppure a «conservare» (operazione spesso più costosa che cominciare da zero). Insomma, se tutto va bene, prima di vedere rientrare in cassa quanto sborsato per l'acquisto dei vecchi Riuniti, chi si aggiudicherà l'asta dovrà attendere un bel po' di anni. C'è qualcuno – in un momento tanto drammatico della nostra economia – in grado di accollarsi una simile spesa, a fronte di un ritorno economico incerto e molto al di là nel tempo? A rigor di logica, sembrerebbe prevalere un certo pessimismo.

Ma qualcosa per favorire la chiusura del cerchio va trovato, anche perchè – paradossalmente – dei tre attori pubblici che hanno firmato l'accordo di programma per il recupero dell'area (Regione, Comune e Università), l'unico teoricamente in grado di poter realizzare la propria parte è l'ateneo, che è anche l'unico chiamato a sborsare di tasca propria quel che serve – almeno 10 milioni di euro – per costruire residenze universitarie (300 alloggi) e una zona sportiva.

Nonostante i tagli da stordimento subiti nell'ultimo anno, l'Università i soldi li ha, ma oltre a quelli (accantonati grazie a un serio programma di economie) ha pure l'urgenza di soddisfare un forte bisogno di residenzialità, visto che oltre il 35% dei suoi studenti non risiede nella Bergamasca. È possibile ipotizzare che l'Università faccia da sè in una «terra di nessuno», in assenza cioè di un progetto complessivo sull'intera area? Francamente no, ed è anche per evitare che l'ateneo finisca con il destinare altrove le proprie risorse, che serve arrivare all'asta del prossimo maggio con un forte atteggiamento collaborativo da parte di tutti.

Un consorzio di colossi immobiliari potrebbe servire alla scopo (ma nei consorzi non si dividono solo le spese, anche i guadagni...), così come ridurre qualche costo accessorio o alleggerire qualche vincolo (senza ovviamente cedere alla cementificazione) potrebbe riaccendere i sopiti entusiasmi degli operatori interessati. Il tutto senza che si debba necessariamente gridare allo scandalo.

C'è infine il problema «accessorio» di garantire l'«incolumità» dell'area per tutto il periodo di transizione, perchè anche sbarrare porte e finestre, presidiando i Riuniti come fossero Fort Knox, ha costi piuttosto esorbitanti, la maggior parte dei quali ricade su Regione Lombardia, e dunque, a conti fatti, sul cittadino che paga le tasse. Un motivo in più perchè tutti collaborino a far sì che l'asta dei Riuniti si chiuda il prossimo 14 maggio alle miglior condizioni possibili, per tutti e non per pochi.

Nel frattempo, da primavera inoltrata a fine estate, perchè non provare a trasformare anche il cortile interno dei Riuniti in un spazio aperto alla città, caratterizzandolo con spettacoli musicali o di teatro, piuttosto che con semplici tombolate o grigliate a suon di cotechino? Il volontariato bergamasco – alpini in testa – sarà certamente in prima fila per far si che tutto fili per il verso giusto. Insomma, i temi su cui discutere non mancano: perchè non provare a farlo tutti insieme?
Alberto Ceresoli

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