«È l'ospedale più bello d'Europa?
Non lo so ma è davvero bellissimo»

di Alberto Ceresoli
«Oui, oui le polemiche... Sono una cosa normale, fanno parte della democrazia. Vanno benissimo, per carità, ma a volte capita che si fa polemica senza disporre di tutti gli elementi per capire le scelte fatte da altri...».

di Alberto Ceresoli
«Oui, oui le polemiche... Sono una cosa normale, fanno parte della democrazia. Vanno benissimo, per carità, ma a volte capita che si fa polemica senza disporre di tutti gli elementi per capire le scelte fatte da altri...». Pacato come sempre, Aymerich Zublena - l'architetto francese che ha progettato il «Papa Giovanni XXIII, membro dell'Accademia delle Belle Arti dell'Istituto di Francia, presidente onorario dell'Accademia d'Architettura francese, il «disegnatore» dello Stadio di Francia - non si lascia certo impressionare dalle critiche che ciclicamente tornano ad animare il dibattito sul nuovo ospedale di Bergamo.

Ma il nuovo ospedale doveva proprio essere realizzato lì?
«Il Papa Giovanni non doveva essere realizzato su quell'area? Tutto è possibile, sbagliare è umano, ma prima di criticare bisognerebbe conoscere. Dal mio punto di vista, quella era l'area giusta: in prossimità di una linea ferroviaria già esistente e di una linea tramviaria progettata da tempo; circondata da strade di grande e facile percorribilità, che consentono di raggiungerla agevolmente dai quattro punti cardinali; lontana da quartieri densamente abitati; in linea con lo sviluppo urbanistico della città... C'erano tutte le caratteristiche perche quest'area fosse idonea ad ospitare il nuovo ospedale e sono ancora fermamente convinto che lo sia. Le polemiche non basate su elementi oggettivi, alla fine, lasciano il tempo che trovano».

Poi ci sono i bidet (che non ci sono), le docce a filo del pavimento...
«Vale lo stesso discorso... Anche se il dibattito è ancora aperto, ci sono precise disposizioni sanitarie che prevedono espressamente che nei bagni comuni non ci siano i bidet - proprio per motivi igienici - e che le docce siano a pavimento. Non siamo in albergo dove si può far la doccia quando si vuole, qui bisogna essere accompagnati da un'infermiera, che dovrà mettere sul pavimento alcuni salviettoni per evitare che l'acqua se ne vada per la sua strada. Su questi temi, come su molti altri ancora, si è discusso ore e ore: alla fine la direzione sanitaria ha fatto le sue scelte, alle quali noi ci dovevamo giustamente attenere. Ma è facile parlare se le cose non si sanno...».

E col terreno «paludoso» come la mettiamo?
«Ah certo, l'acqua... Lo sapevamo fin dall'inizio che lì c'era l'acqua e di certo non abbiamo fatto finta di non saperlo: trovo sciocco pensare che si possa aver progettato un ospedale senza che si sapesse un dato di questa portata. Ma anche in questa circostanza posso ribadire che la soluzione progettuale adottata per le opere di impermeabilizzazione è tecnicamente corretta, studiata con geotecnici specializzati nel settore ed utilizzata con esito sempre positivo anche in altre grandi opere pubbliche, sia in Italia che all'estero. Per inciso, questa soluzione è stata approvata, prima dell'aggiudicazione della gara di appalto, da un ente terzo di primaria importanza incaricato dall'azienda ospedaliera. Le modeste infiltrazioni verificatesi nel piano interrato non riducono la validità delle nostre scelte tecniche. Inoltre voglio evidenziare che le opere idrauliche realizzate dal Comune nell'area della Trucca hanno dato un contributo importante per migliorare lo smaltimento delle acque superficiali. Non c'è alcun timore: l'ospedale non andrà certo a fondo. Il concetto delle fondazioni è quello delle colonne vibrocompresse, che assicurano una perfetta stabilità dell'edificio».

Trincea sì, trincea no?
«La realizzazione della trincea è stata una scelta dell'azienda ospedaliera, concepita come un'opera complementare e di miglioramento dello stato idro-geologico. Possiamo dunque ritenerla un'opera integrativa di protezione del piano interrato, in particolare da eventi atmosferici eccezionali».

Anche Pippo Traversi, l'architetto bergamasco che ha affiancato Zublena nella progettazione del Papa Giovanni, ha qualcosa da dire al riguardo.
«Non si può pensare - spiega - che per progettare il nuovo ospedale di Bergamo si siano seduti attorno a un tavolo quattro stupidi che non avevano di meglio da fare. Si sapeva benissimo che lì c'era l'acqua e lì è stato fatto tutto quello che c'era da fare per contenere e risolvere il problema. Il Comune ha speso fior di milioni per le opere idrauliche necessarie, non scherziamo. E lo stesso dicasi per l'area scelta. Tra questa e quella identificata in un primo tempo alla Martinella non c'è confronto, è di gran lunga meglio questa: meglio servita, paesaggisticamente più interessante e più "capace" di ospitare un'architettura importante come quella realizzata. E poi l'area della Trucca, preservata dal Dopoguerra ad oggi nello sviluppo urbanistico della città, ha trovato la cosa giusta per caratterizzarsi e per caratterizzare il quartiere che negli anni si svilupperà in quella parte di Bergamo, senza dubbio di alto livello».

Nei giorni scorsi anche l'azienda ospedaliera ha ribadito la necessità di una fermata della linea ferroviaria davanti alla piazza del nuovo ospedale: cosa ne pensa?
«A mio avviso la fermata deve essere assolutamente fatta. Del resto era già prevista nel progetto, che contemplava appunto una "stazioncina" per la fermata del treno, ma anche della tramvia, che si sarebbe dovuta affiancare per un certo tratto ai binari della ferrovia. Tutto era stato messo nel progetto perchè si arrivasse a questa soluzione: è una domanda forte a cui prima o poi bisognerà dare una risposta adeguata».

Attorno alle grandi opere che segnano una comunità nasce sempre qualche «leggenda metropolitana». Qui c'è quella secondo cui una delle torri non sia «a piombo» ma «penda» di qualche centimetro: possiamo smentirla una volta per tutte?
«Certamente sì. È un fraintendimento: le torri sono assolutamente a piombo, come tutto l'ospedale del resto. Sono i volumi delle scale che vediamo nell'hospital street che sono inclinati volontariamente per una scelta archittettonica, per creare un effetto di dinamismo nel grande volume interno».

Basta con le polemiche: il Papa Giovanni è aperto. Soddisfatto?
«Si certamente. Un architetto è sempre contento di vedere realizzato ciò che ha immaginato, ma c'é una soddisfazione altrettanto grande, che è quella di vedere i visitatori, i medici e gli infermieri lavorare negli spazi che ha immaginato, di seguire il loro sguardo e di sentire le loro riflessioni. Certo, c'è ancora tanta confusione, soprattutto per quel che riguarda la segnaletica. Bisognerà pazientare ancora sei mesi o un anno perchè tutto vada a regime, ma il percorso è ormai avviato».

Cosa le piace di più di questo progetto?
«L'ampiezza e la luce dell'hospital street, e il sentimento di calma e tranquillità che si sente entrando nell'ospedale. Spero che questa sia anche l'impressione dei visitatori quando scoprono questo spazio che, deve apparire loro come un qualcosa di eccezionale per un ospedale. I volumi e la luce, insieme alla vista di Città Alta, sono la forza spettacolare dell'hospital street».

Qual è stata l'ispirazione che l'ha guidata nella progettazione?
«La mia riflessione si è sviluppata seguendo due grandi principi: rispondere concretamente alle esigenze funzionali specifiche di un ospedale, ma stando sempre attento a trascenderle, in modo da creare una vera opera d'architettura. Ciò consiste, per esempio, nell'inscrivere le funzioni maggiori dell'ospedale (piastra, degenze, urgenze...) in volumi e spazi che giochino tra di loro e con il paesaggio circostante. Per esempio le mura della Città Alta di Bergamo sono state una sorgente d'ispirazione per l'architettura delle torri di degenza. Allo stesso modo il grande tetto inclinato che ricopre la piastra medico-tecnica inscrive perfettamente l'ospedale nel paesaggio circostante. Non ci siamo occupati solo di tecnica, ma anche di armonia, di estetica, perfino di amore, anche se la parola potrebbe apparire eccessiva».

Se oggi dovesse ripensarlo, modificherebbe qualcosa?
«Manterrei sicuramente le disposizioni volumetriche principali. Ho sempre fatto ospedali compatti, qui invece si dà risalto a volumi particolari, e la trovo una scelta riuscita. Ripensandoci, forse, vorrei che i controsoffitti sporgenti dai tetti delle torri fossero di colore rosso, per essere in armonia con le schermature rosse delle facciate, per creare un contrasto più forte con il basamento. Tutto qui».

«Quel che va sottolineato - interviene Traversi - è la coerenza complessiva della struttura, che declina sempre lo stesso linguaggio, senza "scalini" che cambiano il ritmo o il linguaggio. Tra vent'anni, forse, alla stessa domanda risponderemmo diversamente, ma oggi no. Abbiamo realizzato un'architettura di grande qualità, ma misurata: nessuna spettacolarità, nessun gesto architettonico eroico, nessun gesto scultoreo, ma tutto in funzione della natura della struttura, quella di ospitare persone fragili, malate».

Nel corso di tutto questo lavoro, com'è stato il rapporto con Bergamo, con l'ospedale, con i medici?
«Il gruppo dei professionisti, ad ogni livello, è stato sempre in contatto con i principali responsabili della città dì Bergamo e di tutto l'ospedale. Molte decisioni concernenti l'adeguamento del progetto sono state prese durante numerosi incontri con queste persone. I rapporti sono sempre stati ottimi, in particolare con l'ingegnere Paolo Bosi e più recentemente con l'ingegnere Stefano Parimbelli. Tutti i contatti che io stesso ho avuto con la direzione generale dell'ospedale, prima con Carlo Bonometti oggi con Carlo Nicora, e con tutti i rappresentati del personale medico sono sempre stati molto positivi».

A chi deve dei ringraziamenti per averla aiutata nel progettare e realizzare quest'opera?
«È un'opera collettiva: è stato per me un piacere e una magnifica esperienza lavorare con gli ingegneri italiani, da Donato Romano, direttore dei lavori, a Mauro Strada e Cesare Taddia, a Vito Squicciarini, direttore generale della Snob, e con i miei colleghi architetti, Pippo e Ferdinando Traversi, e Andrea Taddia, ed in modo particolare con Alessandro Martini e Edoardo Monaco, che hanno lavorato all'origine del concetto organizzativo».

A chi dedica quest'opera?
«La dedichiamo a tutto il personale dell'ospedale, medici e infermieri, perché sono solo loro, le persone che lavoreranno qui dentro, ad avere la responsabilità di farlo vivere davvero».

Una risposta d'istinto, così, tanto per «regalare» un'altra idea alla città: cosa farebbe dell'area del vecchio ospedale?
«Per la sua storia, architettura e ubicazione nella città di Bergamo, il vecchio ospedale dovrebbe esser trasformato in una magnifica area per attività universitarie e culturali».

Cosa sta progettando di nuovo in giro per il mondo? Nuovi ospedali?
«Lo studio Scau, che ha costruito otto ospedali in Francia e uno a Shangai, sta progettando e realizzando attualmente tre grandi ospedali a Tolosa, a Fart de France in Martinica e a Pointe Noire in Guadalupe, e ora partecipa ad un importante concorso per un ospedale a Montecarlo. Attualmente, inoltre, stiamo costruendo il nuovo stadio di Marsiglia».

Ma il «Papa Giovanni» è il più bel ospedale d'Europa?
«Non lo so... ma è davvero bellissimo».

Alberto Ceresoli

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