Cronaca / Bergamo Città
Venerdì 28 Dicembre 2012
La ricetta di Silvio all'ultima crociata
«Meno tasse e austerità, meno politici»
di Giorgio Gandola
Gabriele e Veronica. Sono le firme sotto i due messaggi di fine anno più indigesti per il Berlusconi all'ultima crociata. Il ritorno in Tv è possente, il centrodestra ha un sussulto di vitalità, i sondaggi si muovono nella direzione che piace a lui
Gabriele e Veronica. Sono le firme sotto i due messaggi di fine anno più indigesti per il Berlusconi all'ultima crociata. Il ritorno in Tv è possente, il centrodestra ha un sussulto di vitalità, i sondaggi si muovono nella direzione che piace a lui. E i collaboratori che hanno ridotto al minimo sindacale le feste scattano nei corridoi di palazzo Grazioli come centurioni del generale Maximus nel «Gladiatore». Magri e famelici.
L'ex premier è in gran forma e la macchina è ripartita, ma Gabriele e Veronica possono incepparla. Come simboli di un passato che non ci si può lasciare alle spalle con un'accelerata, Gabriele Albertini e Veronica Lario sono le notizie del giorno. Il primo non intende fare nessun passo indietro nella corsa al Pirellone, la seconda avrà diritto a ricevere – secondo sentenza del tribunale di Milano – tre milioni di euro al mese di indennità di separazione non consensuale.
«Pazzesco, certe cifre non sono neanche pensabili. Ora l'obiettivo dei giudici è quello di ridurmi sul lastrico», scuote il capo Silvio Berlusconi nel suo quartier generale romano. Incassa il colpo con un moto di amarezza, come incassa quello della cessione di Pato al Corinthians per 15 milioni, solo cinque mesi di alimenti alla ex moglie.
Su Albertini in trincea è più loquace, arriva da una telefonata di mezz'ora con il candidato del Pdl alla regione Lombardia. Candidato ingombrante, candidato di un mese fa. Vale a dire di un'altra era geologica.
Presidente, come pensa di risolvere il problema?
«Sono stato molto tempo al telefono con lui, per ora invano. Si sta ponendo come ostacolo all'alleanza con la Lega - che chiede che il candidato in Lombardia sia Maroni -, con conseguenze enormi. Rende problematica la nostra vittoria a livello nazionale. Ho fatto appello al senso di responsabilità di Albertini, si deve ricordare che è stato convinto da me a candidarsi a sindaco di Milano, che è stato sindaco per 10 anni, sempre sostenuto da noi e dalla Lega. Poi è andato al Parlamento europeo con i nostri voti. Oggi una sua candidatura non sarebbe appoggiata da Formigoni e da Cl, lui rischia solo l'alleanza fra noi e la Lega. Si caricherebbe di una responsabilità enorme. Può candidarsi al Senato con noi, entrare nel governo, svolgere un ruolo chiave in commissione. Gli ho detto tutto questo in maniera chiara. Mi auguro che rinunci».
Questo basterebbe a chiudere l'alleanza con Roberto Maroni?
«La Lega oggi ha un 5 o 6% di voti, ma è necessario. Nel 1996 insistetti con Fini e Casini quasi fino alle lacrime: senza la Lega si perdeva e si è perso. Quello che sta facendo Albertini è tragico, se andiamo divisi succede come in Sicilia: vince la sinistra. Per questo mi auguro anche che la Lega non si distacchi dal suo assoluto realismo. Se si presentasse da sola, magari ne godrebbe quella che pomposamente chiama identità, ma non conterebbe più nulla in Parlamento e non potrebbe più rappresentare gli interessi dei suoi elettori e del suo territorio. Perderebbe non solo la Lombardia, ma anche il Piemonte e il Veneto. Come dicono i francesi, sarebbe un partito dalla "quantité négligéable". Insignificante».
La massima attenzione alla nostra regione ha un significato preciso: Berlusconi riparte dalla Lombardia. E anche l'Italia, se vorrà uscire dalla crisi, dovrà ripartire dal 21% del pil nazionale, dal 17° Land tedesco. La nostra terra.
«La Lombardia è una delle regioni più ricche d'Europa, io riparto da qui. Ma non credo che si possa fare un discorso staccato dal resto d'Italia. Dappertutto si avverte la spirale di negatività imposta dal governo tecnico su pressione soprattutto della Germania. Applicare una politica esclusiva di austerità a un'economia che già fatica significa andare verso la recessione. Ed è successo così. Un anno di governo dei cosiddetti tecnici ha prodotto l'aumento di un milione di disoccupati, l'incremento del debito a 2000 miliardi, ha diminuito il pil del 3%. Bisogna cambiare strada, verso uno sviluppo che riparte dalle imprese. E non solo per la Lombardia, per tutti».
Qual è la ricetta per uscire dal tunnel?
«Bisogna diminuire l'imposizione fiscale: oggi le imprese pagano dal 55% al 62% di tasse sui profitti. Bisogna allentare i vincoli che la burocrazia mette intorno alle aziende. Bisogna tornare ad un maggior credito da parte delle banche. Dentro di me sento la necessità di un intervento anche dello Stato, di un patto fra governo, imprese e banche. Se non si arriva a questo, il credito non crescerà. E poi bisogna togliere i vincoli al patto di stabilità che non consente agli amministratori pubblici di fare investimenti per il bene del loro paese, della loro città».
Ci sono regole imposte dall'Europa, non possiamo tornare indietro, pena il rischio di default.
«In Italia paghiamo il 5% il costo del denaro. Oggi un'impresa trova nel costo del denaro il primo passo per la perdita di competitività, fino a rischiare la chiusura. In un anno abbiamo perso 150.000 iniziative commerciali. E alcune imprese chiuse sono state acquistate per pochi soldi da altri Paesi. La Lombardia può essere ancora la locomotiva d'Italia, ma il governo non dovrà limitarsi alla dottrina dell'austerità. Non c'è da inventare molto, basta tornare all'equazione del benessere liberale. Meno imposte su famiglie, lavoro e imprese uguale più consumi, più produzione e più entrate per lo Stato».
E' la rivoluzione liberale del 2001, ma non si è mai concretizzata.
«Quando l'ho messa nel programma ero in buona fede. Pensavo che si potesse realizzare, ho anche chiesto scusa agli italiani per non essere riuscito a modernizzare il Paese. Abbiamo fatto miracoli, abbiamo completato 40 riforme, più di quelle fatte dai 57 governi che ci hanno preceduto. Ma quelli duravano in media 11 mesi, non si poteva pretendere niente. Noi abbiamo lavorato molto, ma non siamo riusciti a mettere il nostro Paese alla pari delle altre grandi democrazie occidentali».
Anche questo ha determinato la fuga dalla politica. La gente è nauseata e si rifugia dentro alternative internettiane, populiste.
«Preoccupante quel 50% che sta nell'area del non voto o del voto di protesta, vedi Grillo. Se si continua a restare lì si finisce per consegnare il paese alla sinistra, che ha nel suo programma una serie di tasse esiziali per l'economia. Gli italiani devono capire che non possono non interessarsi di politica e non votare, perché in questo caso sarà la politica ad occuparsi degli italiani e dei loro figli. Gli elettori non devono disperdere il voto con i piccoli partiti, che non seguono altri interessi che quelli legati alle ambizioni politiche di piccoli leader. E prima di parlare di programmi bisognerebbe mettere mano all'architettura istituzionale per rendere più governabile il Paese. Per esempio far sì che un disegno di legge esca dal Parlamento in 90-120 giorni. Non nei 600 giorni di adesso».
In Lombardia la Sanità funziona, la scuola è meno peggio che altrove, le infrastrutture (fra Brebemi, Tav, Pedemontana e aeroporti) ci sono o stanno arrivando. Il Pdl ha saputo comprendere la Questione settentrionale meglio del centrosinistra centralista. Poi sono arrivati gli scandali, la corruzione. E i cittadini sono scappati da tutto. Come recuperare credibilità?
«Gli episodi di Fiorito nel Lazio, di Penati in Lombardia, l'utilizzo dei fondi pubblici da parte dei consiglieri regionali hanno allontanato i cittadini da questa politica. Bisogna rinnovare le persone che si occupano degli interessi di tutti. Partirei dal dimezzamento del numero dei consiglieri regionali, provinciali, comunali. E dal dimezzamento, almeno, di deputati e senatori. Ma soprattutto bisogna ripartire da persone che non facciano politica per mestiere, che non abbiano bisogno di lucrare. Il 50% dei nostri candidati sarà composto da persone che arrivano dal mondo del lavoro, imprenditori, professionisti, manager. E tutti dovranno firmare l'impegno di non stare in politica per più di due legislature. Chiederemo ai nostri candidati di votare per dimezzare gli emolumenti ai parlamentari. In Lombardia presenteremo tutti candidati nuovi, solo qualche consigliere comunale sarà eletto per la seconda volta perché si è conquistato la fiducia dei cittadini. Ma no ai politici di professione».
In queste settimane aveva espresso l'idea di dare corpo a un nuovo partito, di sviluppare Forza Italia su nuove basi. È un progetto ancora attuale?
«Non ho mai pensato a una nuova formazione, ma a un nome diverso. Popolo della Libertà è un nome bellissimo: popolo è bello, libertà è grandioso. Ma viene usato per convenzione l'acronimo Pdl che non emoziona e non commuove. Forza Italia comunicava passione e stava nei titoli dei giornali. Un ritorno al passato è sempre stato contrastato dagli ex appartenenti ad Alleanza nazionale, che non volevano rinunciare al loro, di passato. Ora quegli alleati si sono posti fuori dal partito per dare vita a un centrodestra che corre con noi nella coalizione dei moderati. Di conseguenza potremmo chiamarci Forza Italia, ma siamo sotto elezioni e non ci sono i tempi tecnici. Però il messaggio lo abbiamo mandato: torniamo alla nostra identità. Questo anche per quanto riguarda la tradizione cattolica; noi siamo la costola italiana della grande famiglia della democrazia della libertà che è il Partito popolare europeo, la cui carta dei valori è stata in parte scritta da me quando si è celebrato, qui a Roma, il 30° anniversario del Ppe».
Tutti, da sempre, pensano di poter dare una casa ai cattolici.
«Non vedo quale altra formazione politica sia in sintonia con i principi della Chiesa. L'agenda Monti, che in parte è quella di Ichino e in parte quella di Renzi, vuole sposare in toto i dettami dell'Europa. Un'Europa che non ha voluto inserire nello statuto l'origine cristiana della nostra civiltà, un'Europa che vieta i crocifissi nelle aule delle scuole. E guardando al Pd vedo un programma che prevede i matrimoni gay ed è la negazione di ciò per cui la Chiesa si batte: la difesa della vita».
Lei dice di avere l'entusiasmo della prima volta, ma per gli elettori è la sesta.
«Sbagliato, di più. Mi sono fatto anche elezioni europee, regionali, anche un giro d'Italia su un bastimento. Andare contro natura per me è rimettermi in campo e fare una campagna elettorale con i limiti che vengono imposti. Sento gli strilli perché avrei occupato le televisioni. Sto solo cercando, dopo un anno e un mese di totale assenza, di spiegare agli italiani la situazione. Questo significa che faccio paura e i sondaggi mi danno ragione: in due settimane siamo passati dal 14% al 20%, più il 2,5% degli ex An. Per questo mi dicono che la par condicio comincia da subito. Ma se non mi fanno andare in Tv organizzerò un piccolo giro d'Italia».
Le idee non gli sono mai mancate e anche le ossessioni elettorali. L'ultima arriva da molto lontano: «Ricordo un manifesto che a 12 anni andavo ad attaccare sui muri di Milano. Era della Dc, era meraviglioso, diceva: Nella gabina elettorale Dio ti vede, Stalin no. Non è cambiato niente». Soprattutto non è cambiato lui.
Giorgio Gandola
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