L'ex ministro Pandolfi: «Monti?
Una scelta felice: amici da anni»

«Ritengo felice la scelta di Mario Monti. Lo aspetta un compito immenso, ma può essere utile anche a coloro, come Berlusconi, che ne possono apparire condizionati». Parola di Filippo Maria Pandolfi, illustre bergamasco e uno dei protagonisti della Prima Repubblica.

«Ritengo felice la scelta di Mario Monti. Lo aspetta un compito immenso, ma può essere utile anche a coloro, come Berlusconi, che ne possono apparire condizionati».

Parola di Filippo Maria Pandolfi, illustre bergamasco e uno dei protagonisti della Prima Repubblica. Uno che se ne intende: più volte ministro e poi vice presidente della Commissione europea, ai tempi del francese Jacques Delors, dal 1989 al 1993. Pandolfi, ieri, era a Saint-Vincent, al tradizionale convegno di studi che una pattuglia di ex democristiani bergamaschi organizza da dieci anni per ricordare Carlo Donat-Cattin, storico leader di Forze nuove, la sinistra sociale della Dc.

L'ex ministro, ai margini del convegno, parla volentieri con «L'Eco di Bergamo» del suo amico Monti. «Appena s'è sparsa la notizia, l'altro giorno, ho telefonato subito alla moglie, la signora Elsa», ci dice Pandolfi, orgoglioso di essere stato, in qualche misura, il talent scout dell'economista. Pandolfi (84 anni portati con l'eleganza di sempre e uomo dalla proverbiale memoria) non ha difficoltà a ricordare quel 1978 che lo vede ministro del Tesoro.

Allora doveva mettere a punto il Piano che portava il suo nome, il «Programma per lo sviluppo, una scelta per l'Europa», destinato a portare l'Italia nello Sme (Sistema monetario europeo) che è stato la porta d'ingresso nell'euro. Forma così una squadra di primo livello: Mario Monti, Tommaso Padoa-Schioppa (che poi andrà alla Banca centrale europea e in seguito diventerà ministro nell'ultimo governo Prodi), Franco Reviglio e Fabrizio Saccomanni. «La mia idea – ricorda Pandolfi – era di mandare Monti a Bruxelles come direttore generale degli Affari economici e finanziari. Ma lui non se la sentiva: in quel periodo si stava trasferendo dall'università di Torino alla Bocconi e inoltre era, come oggi, editorialista del "Corriere della Sera"». «Finito l'incarico al ministero – continua –, siamo sempre rimasti in contatto e poi abbiamo ripreso a frequentarci più tardi, nel '94, quando io ho terminato la mia missione a Bruxelles e lui è diventato commissario europeo. Ci vedevamo spesso, rapporti molto stretti. Diciamo che in quella fase gli ho fatto capire la situazione nella Commissione europea, gli ho dato suggerimenti e consigli. Diciamo così, una specie di consulenza».

Ma come possiamo definire Monti? «Politicamente, non saprei con precisione. Credo che la definizione più corretta sia quella di un moderno liberaldemocratico. Vedo in lui due qualità. La prima è che ha un rango intellettuale di assoluta eccellenza. La seconda è che un uomo di rara affidabilità e quindi in periodi eccezionali, come questi, è una persona che merita gli sia riconosciuta una fiducia particolare». Ma è un tecnico, non un politico. «Questo – replica Pandolfi – è vero e può essere un problema, nel senso che non ha mai fatto politica in senso proprio. Ma, attenzione, sia da me, al ministero, sia in Europa, è sempre stato nel circuito delle decisioni politiche: basti pensare a quel che di importante ha fatto a Bruxelles come commissario alla Concorrenza».

Monti, nel dibattito a Saint-Vincent, è sempre rimasto sullo sfondo, ma questo non ha impedito a Pandolfi di dire la sua, con garbata competenza e fra gli applausi dei circa duecento bergamaschi presenti, sul disastro Italia. Bene la patrimoniale: del resto, dice, è così ovunque. Pandolfi non scende nei particolari tecnici, ma il principio di una tassa sui patrimoni s'impone: del resto la distinzione fra redditi e rendite è scolastica. Poi bisognerebbe vendere da subito una parte del patrimonio dello Stato. «Mettiamo sul mercato – spiega – le Poste, che ormai sono diventate banche, e la Cassa depositi e prestiti». Le prime valgono dai 25 ai 30 miliardi, le seconde dai 60 ai 70: in tutto un centinaio di miliardi euro. «Una metà – aggiunge – servirebbe per abbassare il debito e l'altra per gli investimenti industriali e le infrastrutture pubbliche». Pandolfi non parla per sentito dire: con lui alla guida del Tesoro, negli esercizi finanziari dal '79 all'81, il debito pubblico – secondo i dati certificati da Bankitalia – s'è fermato: caso unico nella storia repubblicana.

E come la mettiamo con i privilegi del ceto politico? Oggi abbiamo una sciagurata legge elettorale, ma anche allora, nella prima metà degli anni '70, non si scherzava. Pandolfi cita due pessime leggi di quel tempo: quella dei combattenti, che discriminava fra lavoratori del settore privato e di quello pubblico, concedendo a questi ultimi tre anni gratis e un avanzamento di grado a ridosso della fine rapporto, e quella sull'invalidità permanente che oltre i 65 anni poteva essere concessa per imprecisate «ragioni sociali». Detto questo, Pandolfi fissa alcune differenze sostanziali fra ieri e oggi: «Allora c'erano tre aspetti che non riscontro oggi: una diversa coscienza del Parlamento, una cultura del risultato e, quanto ai rapporti umani, si era un po' tutti compagni di scuola e si lavorava insieme al di là delle differenze di partito».

Qualche esempio pratico. In quella stagione, lontana anche come sensibilità culturale, i parlamentari lavoravano dalle 14,30 del lunedì alle 13 del venerdì: l'impegno prevalente era in Commissione, un giorno in Aula, un pomeriggio libero. Fine settimana dedicato al collegio elettorale: «È per questo – confessa Pandolfi fra il consenso della platea – che non ho mai imparato a sciare: nei weekend, dal '45 in poi, ho sempre fatto politica di territorio». E bisognava anche studiare. Pandolfi quando era libero andava dal giurista Gino De Gennaro, uno dei suoi maestri, che gli insegnava come scrivere le leggi in base agli standard della democrazia inglese: norme brevi e facilmente leggibili (oggi sono in un burocratese intraducibile). E quando c'era da formulare leggi di struttura, bisognava guardarsi attorno, imparare dai migliori, uscire dalla piccola patria. È stato il caso della normativa sull'anagrafe tributaria: Pandolfi porta i colleghi della Commissione in America per studiare il sistema più avanzato. Una Commissione che ha lavorato per due anni, concedendosi – precisa l'ex ministro – solo dieci giorni di ferie.

Nel momento in cui anche la Seconda Repubblica è al tramonto, un giudizio più sereno sulla Prima (dopo l'analisi di Pandolfi, apparsa più una lectio magistralis che un semplice intervento di routine) sarebbe utile e intellettualmente onesto: proprio tutta da buttare?

Franco Cattaneo

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