La riforma che cambia metà Costituzione

Al voto su devolution, premierato e nuovo Senato federale Torna l’interesse nazionale, 200 parlamentari in meno dal 2016

La riforma su cui voteremo al referendum di domenica e lunedì prossimi riguarda il 40% degli articoli della Costituzione vigente, nella sua seconda parte. In estrema sintesi, essa prevede la diminuzione del numero di deputati e senatori, la formazione di tre percorsi legislativi differenti, la modifica dell’attuale bicameralismo perfetto con la nascita di un Senato federale, nuove funzioni per il presidente della Repubblica, la trasformazione del presidente del Consiglio in un primo ministro, nuove norme a favore della devolution bilanciate da altre anti-devolution. Tutte materie che hanno e fanno discutere giuristi, costituzionalisti e la politica con la Cdl, che ha varato e votato la riforma, schierata per il «sì» e con il centrosinistra apertamente contrario sin dal primo esame parlamentare. Da qui il suo «no».La devolutionCominciamo dal passaggio istituzionalmente e politicamente più «scottante» delle modifiche costituzionali proposte dalla Cdl. Si tratta, in sostanza, di un’estensione, o se si preferisce di un superamento, della riforma del Titolo V varata dal centrosinistra nel 2001 (art. 117 della Carta). Viene mantenuta l’attuale tripartizione di competenze: quelle esclusive dello Stato, quelle concorrenti tra Stato e Regioni e le ultime non racchiuse nei due ordini precedenti ma di competenza regionale, su cui si è intervenuti con alcune revisioni. Nel testo della riforma sono, così, diventate di «esclusiva competenza regionale»: 1) l’assistenza e l’organizzazione sanitaria. 2) l’organizzazione scolastica, la gestione degli istituti scolastici e di formazione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche. 3) la definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico delle Regioni stesse. 4) la polizia amministrativa regionale e locale. 5) ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato. Quasi a bilanciare questa iniezione di maggiori poteri «decentrati», viene abrogato l’attuale articolo 116 che consente alle Regioni di ottenere ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia e, soprattutto, si reintroduce la condizione «dell’interesse nazionale» che la riforma del 2001 aveva, invece, abrogato. Come dire: le norme regionali non possono mai oltrepassare la soglia dell’interesse della nazione: è un evidente compromesso raggiunto, dall’oramai famosa elaborazione del comitato dei saggi nella baita di Lorenzago sino all’ultimo dei passaggi parlamentari della legge, tra le varie anime politiche della Casa delle libertà. Ora, cosa potrebbe succedere alle tasche dei cittadini tenuto conto che dal 1999 ad oggi la forbice tra entrate e uscite nella spesa delle Regioni si è allargata? Le risposte date dai due schieramenti sono diametralmente opposte. Il Corriere Economia lo ha chiesto all’ex ministro del Welfare Roberto Maroni (Lega) e al diessino Franco Bassanini, docente di diritto costituzionale. Per Maroni «...la forbice, allargatasi proprio per la mancanza di un vero federalismo, si ridurrà drasticamente perché le Regioni avranno la gestione esclusiva di alcune materie e non potranno fare spese folli, ma attuare una politica di oculatezza, tagliando gli sprechi e concentrando le risorse nei settori dove c’è maggior richiesta da parte del cittadino». Per Bassanini, invece, «...non si è voluto attuare un pezzo del Titolo V su cui tutti dicono di essere d’accordo (compreso Tremonti che doveva attuarlo e non l’ha fatto): quello sul federalismo fiscale. Regioni ed enti locali, dotati di risorse insufficienti e senza autonomia finanziaria, finiscono per presentare il conto allo Stato. Così la spesa è salita e con la devolution salirà ancora»Il nuovo iter delle leggiFloriana Cerniglia sul sito LaVoce.info ha riassunto i nuovi scenari legislativi previsti dalla riforma. Cosa cambierà per il sistema di formazione delle leggi con l’introduzione del Senato federale? La nuova disciplina è dettata dall’art. 70 e ne prevede almeno 3. Scrive la Cerniglia: «Un procedimento a prevalenza Camera dei deputati - scrive la Cerniglia - nell’ambito delle materie a competenza esclusiva dello Stato, su cui il Senato può solo proporre modifiche alla Camera che comunque decide in via definitiva. Un procedimento a prevalenza Senato, nell’ambito delle materie a competenza concorrente tra Stato e Regioni e su cui l’ultima parola spetta, anche dopo le proposte della Camera, al Senato stesso. E, infine, un procedimento in cui, come avviene adesso, la funzione è esercitata congiuntamente. Poi ci sono le varianti. In caso di conflitti di competenza, la questione è rimessa nelle mani dei presidenti delle due Camere, che convocano una commissione paritetica». I detrattori di questo, eventuale, nuovo sistema parlano di «farraginosità di una soluzione oltremodo confusa». I favorevoli insistono sull’introduzione del Senato federale (252 invece di 315 membri) «eletto direttamente dai cittadini» con una ripartizione dei seggi che avverrà sulla base della popolazione di ciascuna Regione.Il premierato «forte»Siamo ad un altro nodo spinosissimo delle modifiche costituzionali votate dalla Case delle libertà. Qui bisogna ridare la parola a Roberto Maroni e Franco Bassanini. Le loro posizioni spiegano bene anche cosa prevede, in dettaglio, la riforma. Per Maroni «i vantaggi di avere un premier forte sono evidenti: può scegliere e revocare i ministri del proprio governo, può contare su una maggioranza solida senza rischiare di cadere per colpa di un manipolo di trasformisti, ha dei poteri maggiori che gli consentono una maggiore autorevolezza sia in campo internazionale che nazionale. E risponde direttamente ai cittadini che lo hanno eletto». Bassanini attacca: «Nelle grandi democrazie dell’Occidente, i governi forti sono bilanciati da Parlamenti forti e forti istituzioni di garanzia. Qui si vorrebbero dare al Primo ministro i poteri di George W.Bush. Ma Bush non può sciogliere le Camere, non può emanare decreti-legge e neppure nominare un ministro o un direttore generale senza l’ok del Senato. Il Primo ministro italiano, invece sì. Avremo una forma di governo inedita e squilibrata, vagamente ispirata a quella che Israele sperimentò per pochi anni, e poi fallì». Il capo dello StatoCon un raffronto giornalistico, il quotidiano «Avvenire» ha provato a «simulare» cosa succederà al Quirinale nel caso in cui vincano i sì e nel caso opposto (cioè se la situazione rimarrà quella di oggi). Se il referendum decreterà la vittoria dei primi, «il presidente della Repubblica rappresenta la nazione ed è garante della Costituzione e dell’unità federale della Repubblica». L’età per essere eletti scende a 40 anni e la scelta spetta all’Assemblea della Repubblica composta da deputati, senatori, rappresentanti delle Regioni. Il presidente della Repubblica nomina i presidenti delle Autorità di garanzia e i vicepresidenti del Csm. I suoi atti - anche quelli di grazia - devono essere controfirmati dai ministri. Nel caso di una bocciatura della riforma, invece, il «presidente della Repubblica continua a rappresentare l’unità nazionale ed a essere eletto, se ha compiuto i 50 anni di età, dal Parlamento in seduta comune». Può sciogliere le Camere, «sentiti i loro presidenti», e nei fatti può nominare un nuovo presidente del Consiglio che abbia una maggioranza elettorale diversa da quella del governo costituito dopo le elezioni. Presiede il Csm.Norme antiribaltoniE qui si innesca un’altra materia nuova per la Carta costituzionale. In pratica - prevede la riforma - la Camera può obbligare il Primo ministro alle dimissioni, approvando una mozione di sfiducia firmata almeno da un quinto dei componenti. In caso di approvazione della sfiducia, il premier si dimette e il Capo dello stato decreta lo scioglimento della Camera (art. 94). Ma il primo ministro si deve dimettere anche nel caso in cui la mozione «sia stata respinta con il voto determinante di deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni» (sempre l’art. 94). È questa la disposizione «antiribaltone» che, se ha il vantaggio di rispettare più linearmente la volontà degli elettori, sembra pregiudicare, però, ogni tipo di margine di mediazione parlamentare nell’eventualità di una crisi di governo. Viene, inoltre, istituita la «sfiducia costruttiva»: i deputati appartenenti alla maggioranza uscita dalle urne possono presentare una mozione contenente la designazione di un nuovo primo ministro. In tal caso il premier in carica si dimette e il capo dello Stato nomina il nuovo inquilino di Palazzo Chigi.Gli organi di garanziaNon ne parla quasi nessuno ma novità sono proposte anche per quanto riguarda la composizione della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura. Il numero dei giudici della prima resta invariato ma la Camera e il Senato ne esprimeranno 2 in più, passando da 5 a 7. I membri di competenza del Presidente della Repubblica e della magistratura scendono a 4. Per il Csm le modifiche introducono un procedimento elettivo diverso tra Camera e Senato. La scelta del vicepresidente spetta al Presidente della Repubblica.Meno parlamentariDel Senato federale abbiamo già detto (252 senatori al posto degli attuali 315). Per la Camera si scenderebbe a 518 dai 630 di oggi. Anche qui siamo in piena bagarre politica perché la Cdl afferma di voler abbassare i costi della politica, mentre l’Unione replica di aver invano proposto un «taglio» ben più corposo. In totale, il numero dei parlamentari (compresi anche i senatori a vita e gli ex presidente della Repubblica) scenderebbe da 950 a 773 a partire dal 2016 (ma secondo altre fonti dal 2011). Più interessante, forse, è sapere che oggi come oggi, a «bocce ferme», le autonomie locali, tutte assieme, spendono già il 14% circa del Pil, attorno ai 200 miliari di lire.Una lunga transizioneSe la riforma avrà il via libera referendario, anche altre norme - per quanto attiene l’elezione delle due Camere, ad esempio - scatteranno «solo» nel 2011. Resta sospeso il capitolo del federalismo fiscale anche se l’art. 119 della Costituzione viene «arricchito» da una norma transitoria sul tema. Vi si legge: «Entro tre anni dalla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale, le leggi dello Stato assicurano l’attuazione dell’art. 119 della Costituzione. In nessun caso l’attribuzione dell’autonomia impositiva ai comuni, alle province, alle città metropolitane e alle regioni può determinare un incremento della pressione fiscale complessiva». Economicamente siamo di fronte ad un bel rebus. Politicamente un po’ meno. Per una maggioranza che ha posto al centro del suo governo la riduzione delle tasse, era impossibile ipotizzare che quello che viene «tagliato» al centro sia poi aumentato in periferia. (23/06/2006)Daniele Vaninetti

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