Cronaca
Venerdì 08 Ottobre 2010
Traumatizzati cranici
ogni anno seicento casi
«Dimenticare e combattere» è la risposta di Samuel Pelliccioli alla domanda di come si possa riuscire a tornare a vivere dopo un incidente in moto. Samuel ha raccontato la sua esperienza, ma si è parlato anche di Marta, Francesco, Luca e di tanti altri ragazzi colpiti dallo stesso destino alla prima Giornata nazionale per la ricerca nelle gravi cerebrolesioni acquisite, organizzata ieri alla Casa del giovane.
I traumatizzati cranici da incidenti stradali sono moltissimi, rappresentano il 48,5% di tutte le gravi cerebrolesioni acquisite, una percentuale di molto superiore a quella relativa agli ictus e ai gravi episodi cardiocircolatori. «Sono circa 600 i casi gravissimi all'anno e la fascia d'età più colpita è quella dai 16 ai 25 anni», ha detto Stefano Pelliccioli, papà di Samuel. Dal convegno è emerso che la situazione è drammatica perché ci sono circa 8 mila morti all'anno ma ce ne sono altri 20 mila che escono dal coma e non essendo apparentemente disabili non vengono riconosciuti come tali. Hanno problemi cognitivi, comportamentali, problemi caratteriali che li portano a dover essere seguiti 24 ore su 24.
Ci sono disabili che fanno vite pressoché normali, mentre questi ragazzi non sanno attraversare la strada o non si sanno allacciare i bottoni della giacca. Ecco perché la ricerca è fondamentale per il loro futuro, perché si potrebbero trovare delle terapie per poterli aiutare a recuperare maggiormente visto che le potenzialità residue in una grave cerebrolesione acquisita sono tantissime e lo dimostrano i ragazzi che faticosamente ritornano alla vita.
In Lombardia non va male, la regione ha stanziato 500 euro per ogni famiglia che ha una persona in stato vegetativo in casa e a Bergamo c'è il Centro per gravi cerebrolesioni. Walter Fornasa, prorettore dell'Università di Bergamo, ha condotto una ricerca sociologica sugli incidenti stradali in una scuola superiore con 493 questionari da cui è emersa innanzitutto la questione dell'impatto dell'immagine, che unita ai racconti di chi ha vissuto la tragica esperienza, provoca nei ragazzi una forte emozione. «L'immagine è la cosa che più li tocca – spiega Fornasa – e questo fatto mi ha colpito perché questi ragazzi sono abituati a vedere ovunque immagini forti. È positivo capire che ci sono ancora immagini che escono dal rumore di fondo. Forse perché accompagnate anche dai racconti dei protagonisti, questo ha generato un ascolto molto particolare. Dai questionari si ha la netta sensazione che i ragazzi si sentono presi in carico da qualcuno che racconta loro una storia di un qualcosa che li può riguardare, che nel campo dell'educazione è un fatto molto importante. È una comunicazione che i ragazzi chiedono, ma non dalla forma scolastica, la chiedono in una forma narrata e la sensazione è che senza le immagini quel racconto non sarebbe così forte».
Francesca Masseroli
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