Cronaca / Bergamo Città
Lunedì 12 Aprile 2010
Video sul disabile, Google condannata
«Informativa carente sulla privacy»
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Questo uno dei passaggi delle motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che ha condannato tre dirigenti di Google a sei mesi per violazione della privacy, in relazione alla pubblicazione sul web di un video nel quale un ragazzo disabile veniva vessato da alcuni di compagni di scuola.
Le motivazioni pubblicate lunedì 12 aprile si riferiscono alla condanna a sei mesi del 24 febbraio scorso a carico di tre tra dipendenti ed ex dipendenti di Google, accusati di violazione della privacy e prosciolti invece per il reato di diffamazione. Il processo riguardava la pubblicazione nel 2006, sulla piattaforma di Google, di un video nel quale veniva ritratto un ragazzo disabile mentre subiva vessazioni da parte di compagni di scuola in un istituto di Torino.
La condanna, con pena sospesa, riguarda David Carl Drummond, senior vice president di Google e all'epoca dei fatti presidente del cda di Google Italia, George De Los Reyes, uscito dalla società nel frattempo e nel 2006 membro del cda di Google Italia, e Peter Fletitcher, global privacy council di Google. Il 24 gennaio è stato completamente assolto Arvind Desikan, product marketing manager di Google Video per l'Europa, accusato solo di diffamazione.
«L'informativa sulla privacy era del tutto carente o, comunque, talmente nascosta nelle condizioni generali di contratto da risultare assolutamente inefficace per i fini previsti dalle legge». È quanto sostiene il giudice della quarta sezione penale del tribunale di Milano Oscar Magi nelle motivazioni della sentenza: «Google Italy trattava i contenuti nei video caricati sulla piattaforma di Google Video e ne era quindi responsabile, perlomeno ai fini della privacy», si legge ancora nella sentenza.
Il reato per cui sono stati condannati i tre manager di Google per il tribunale di Milano risiede, tra l'altro, nel fatto che da parte della società c'è stato lo sfruttamento commerciale del video pubblicato sul web. «In parole semplici - spiega il giudice nella sentenza - non è la scritta sul muro che costituisce reato per il proprietario del muro ma il suo sfruttamento commerciale puo' esserlo, in determinati casi e determinate circostanze».
Il reato di violazione della privacy non è stato commesso solo in Italia ma anche negli Usa. «In particolare deve ritenersi che il reato in questione sia stato commesso sicuramente anche all'estero. Non vi è dubbio che perlomeno parte del trattamento dei dati immessi a Torino sia avvenuto fuori dall'Italia in particolare negli Usa, luogo dove hanno indubitabilmente sede i server (cioè le macchine che trattano e immagazzinano i dati) di proprietà di Google Inc».
Google ha confermato che ricorrerà in appello: «Stiamo leggendo le 111 pagine del documento di motivazioni del giudice, tuttavia, come abbiamo detto nel momento in cui la sentenza è stata annunciata, questa condanna attacca i principi stessi su cui si basa Internet», si legge in una nota della società, che sottolinea che «se questi principi non venissero rispettati, il web così come lo conosciamo cesserebbe di esistere e sparirebbero molti dei benefici economici, sociali, politici e tecnologiche che porta con sé. Si tratta di importanti questioni di principio ed è per questo che noi e i nostri dipendenti faremo appello contro questa decisione».
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