Lo scorso mese di novembre era stato ricoverato nel reparto di Chirurgia vascolare un uomo di 63 anni affetto da infezione protesica in esiti di pregresso by pass aorto-bifemorale eseguito anni prima. L’infezione di una protesi vascolare a livello addominale è una condizione grave, a prognosi sfavorevole, quasi sempre dovuta ad una situazione di decubito della protesi stessa sull’intestino adiacente.
La terapia più diffusa in Europa e in Italia per tale patologia è l’espianto della protesi infetta e la ricostruzione dell’asse arterioso attraverso l’utilizzo di preparati aortici prelevati da cadavere. Tale tecnica può essere realizzata solo nei pochi centri dove possono essere conservate le aorte da cadavere ed è gravata da una limitata durata nel tempo, tanto da essere considerata un «trapianto ponte». Un’alternativa viene però dagli Stati Uniti, dove un gruppo di chirurghi vascolari di Dallas (Texas), diretti dal professor Patrick Clagget, ha messo a punto ormai da oltre 15 anni una tecnica che prevede l’utilizzo delle vene profonde degli arti inferiori per la ricostruzione aortica addominale.
Questo tipo di intervento chirurgico è lungo (10 -12 ore) e invasivo (essendo necessario intervenire non solo a livello addominale, ma anche a livello degli arti inferiori e con ferite profonde), ma permette di ottenere ottimi risultati non solo immediati, ma anche duraturi nel tempo, a fronte di svantaggi accettabili (edemi e cicatrici agli arti inferiori). Tenendo in considerazione l’età del paziente, e dopo aver consultato tramite posta elettronica il gruppo del professor Clagget, i chirurghi vascolari del policlinico «San Marco» diretti da Mazzetti hanno quindi deciso di eseguire questo intervento, aiutati dall’équipe di Chirurgia generale del policlinico per la «riparazione intestinale».
L’intervento è perfettamente riuscito e il paziente è stato dimesso dopo 25 giorni di degenza in buone condizioni e, soprattutto, senza più la pericolosissima infezione che l’aveva costretto al ricovero. «Quella di cui soffriva il nostro paziente – spiega il dottor Mezzetti – è una patologia drammatica, che richiede assolutamente la soluzione chirurgica, con molte complicanze e con una mortalità elevatissima, ma con il vantaggio di una maggior durabilità nel tempo. Le condizioni del paziente, peraltro, ci consentivano di utilizzarla con una ragionevole dose di rischio. Alla fine anche il chirurgo del Texas, cui abbiamo chiesto alcuni consigli, ci ha fatto i complimenti. È un intervento che utilizzeremo anche nei prossimi casi simili a questo».
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