RAUTEN (CILE) - La tranquillità della casetta di campagna nel Cile centrale mi sta consentendo di ridurre il ritardo nel racconto del giro del mondo. Ancora un po’ di pazienza e voleremo insieme in Sudamerica. La frontiera tra Namibia e Sudafrica di Noordoewer-Vioolsdrif non mi ha riservato nessun contrattempo, anche se sono stato sgridato dalla polizia sudafricana per essermi fermato con il fuoristrada dove non era consentito.
Sono entrato il Sudafrica con molte attese perché me lo avevano descritto unanimemente come un Paese tra i più belli al mondo e poi ero curioso soprattutto di constatare quale fosse il sentimento dei neri verso i bianchi - non verso di me, bensì verso chi li aveva umiliati con la segregazione razziale - dopo la fine formale dell’apartheid nel 1991 e le prime elezioni democratiche con la vittoria di Nelson Mandela nel 1994.
Avevo letto sulla guida che la remota regione del Namaqualand in primavera si ammanta di splendidi fiori selvatici, ma non ho ammirato nessuna esplosione di colori: la strada, naturalmente asfaltata, mi offriva soltanto la continuazione del panorama desertico e desolato ereditato dall’ultimo tratto namibiano. Mi sono fermato per prevelare contanti in uno sportello automatico, rifornirmi di gasolio (un litro 75 centesimi di euro, ho avuto la conferma definitiva che nemmeno in Africa il carburante è a buon mercato) e concedermi uno spuntino rimediato in un supermarket.
Non avevo dubbi, comunque il Sudafrica mi è subito sembrato un Paese occidentale quanto a servizi di base e turistici, ancor più della Namibia. Da Vanrhynsdorp, dove ho pernottato, ho telefonato a Stefano Marmorato, il rappresentante in Sudafrica del Cesvi, che era il mio unico aggancio.
Ci siamo accordati per vederci a Cape Town non appena fossi arrivato, cioè poche ore dopo. La regione del Western Cape era più gradevole e fiorita, ma soltanto quando ho avvistato Cape Town da lontano, tra i tralicci dell’alta tensione, mi sono elettrizzato. Il cartello stradale la dava distante ancora 32 chilometri, eppure se ne individuava già il profilo: la Table Mountain e la vetta di Lion’s Head, con il cuore cittadino disegnato a ferro di cavallo sul mare e distese di sabbia bianca. Inevitabile il paragone con Rio de Janeiro e il suo Pan di Zucchero. L’ho ammirata e mi sono emozionato, quasi commosso, avevo davvero attraversato tutta l’Africa, era la prima pietra miliare del mio giro del mondo.
Stefano Marmorato, trentasettenne ricercatore universitario di Genova, dal 1999 in Africa (i primi cinque anni in Mozambico), è sempre stato molto gentile e disponibile durante la mia permanenza a Cape Town. Abbiamo pranzato al Waterfront, il lungomare turistico, e mi ha tracciato un quadro della situazione sudafricana e della sua attività. Lavora per il Cesvi, che - come racconterò in un’altra occasione, più avanti - ha lanciato un progetto innovativo contro la violenza alle donne (una delle maggiori cause della diffusione dell’Aids, emergenza numero 1 in Sudafrica con 4,5 milioni di infetti) e per la Slum Dwellers International, un’organizzazione internazionale di abitanti di baracche supportata da una schiera di professionisti. Mi ha impressionato un dato della realtà sudafricana: ogni sei ore una donna viene uccisa dal proprio partner.
Siamo stati costantemente in contatto e un paio di sere mi ha invitato a casa sua a cena, così ho potuto conoscere Cèlia, la sua compagna mozambicana. Stefano mi ha accompagnato in un bed and breakfast a Observatory, un quartiere meridionale noto per la sua atmosfera alternativa, quasi bohémien, e per i suoi ristoranti e caffè.
La casa vittoriana restaurata e gestita da un distinto signore inglese mi ha immediatamente conquistato, la singola costava 41 euro con la colazione, una cifra abbastanza elevata per il mio budget, ma nel panorama caro delle sistemazioni di Cape Town rappresentava un buon compromesso. Ero a due passi dal Groote Schuur Hospital dove Christiaan Barnard effettuò il primo trapianto di cuore al mondo nel 1967 e dal centro del quartiere dove si poteva passeggiare anche di notte senza timore, ma era normale essere agganciati da neri che, per strappare l’elemosina, rivangavano magari il passato con un briciolo di aggressività suscitando in me quasi un senso di colpa per il colore della mia pelle.
I primi giorni a Cape Town li ho dedicati alla risoluzione di problemi non indifferenti e volevo pensarci subito, anche perché era in arrivo dall’Italia una mia amica, Sonia, destinata a condividere con me il tour del Sudafrica. Dovevo perfezionare l’accordo per la spedizione via nave del fuoristrada a Buenos Aires, scovare un biglietto aereo conveniente per la capitale argentina, far revisionare il Toyota Land Cruiser, al quale in 23.000 chilometri avevo cambiato soltanto il filtro dell’aria, intasato dalla sabbia, e aggiunto due chili d’olio, operazioni effettuate in Tanzania dopo circa 12.000 km, e infine dovevo comprare una gomma nuova, per sostituire quella distrutta in Botswana. C’era poi da pianificare il mese in Sudafrica, conoscere le realtà raccontatemi da Stefano e consegnare a Sivan, l’israeliana, un cd con le foto che le avevo scattato.
Sono stato alla Elliott company e ho parlato con Diane, con cui ero in contatto via email: mi ha confermato i 2.700 dollari di tariffa per la spedizione, mi ha garantito la data di partenza del cargo e mi ha promesso che si sarebbe informata per dirmi il costo delle tasse da pagare a Buenos Aires per il ritiro del fuoristrada. Ho potuto così prenotare un volo di sola andata per la capitale argentina con la Malaysia Airlines (660 euro). Dal gommista ho purtroppo scoperto che lo pneumatico posteriore sinistro aveva un «bubbone» che avrebbe potuto scoppiare in qualsiasi momento, e di conseguenza ho dovuto comprare due gomme nuove scucendo la bellezza di 480 euro; inoltre è stata riparata quella forata in Namibia.
La revisione del fuoristrada si è rivelata quasi un’odissea. Mi sono rivolto all’officina Toyota di Claremont per un controllo generale e un preventivo: il primo giorno era ormai troppo tardi, il secondo mi sono presentato con il Land Cruiser al mattino, l’hanno controllato e la sera mi hanno comunicato che c’erano da cambiare la pompa dell’acqua, che aveva una lieve perdita, gli ammortizzatori posteriori e un pezzo del braccio dello sterzo, per un problema che in Etiopia avevano sistemato temporaneamente ingegnandosi. Il giorno dopo mi avrebbero dovuto comunicare il preventivo per email, invece mi hanno scritto che dovevo tornare in officina con il fuoristrada per annotare un numero di serie fondamentale per individuare un ricambio giusto. Ok, ancora un giorno di attesa e sono quasi stramazzato al suolo apprendendo il costo totale, 1.280 euro. Ennesima puntata in officina (ormai conoscevo metro per metro il tratto di strada tra Observatory e Claremont) e nuovo contrattempo: i pezzi di ricambio sarebbero arrivati da Johannesburg dopo quasi una settimana, ma io dovevo accelerare i tempi, cosicché il manager mi ha assicurato che la spedizione sarebbe a!vvenuta per via aerea. Dovevo restare a Cape Town soltanto il weekend, il lunedì sera avrei avuto il fuoristrada revisionato. Comunque un fuori programma che ci ha costretto a cambiare sistemazione per due giorni e la scelta è caduta su «Backpack», l’ostello numero 1 della città.
Quando è atterrata Sonia, io stavo ancora correndo a destra e sinistra. La sua prima esperienza a Cape Town avrebbe potuto essere abbastanza traumatizzante, invece si è divertita. Con Stefano abbiamo visitato la Vredehof Farm, un’area vicina all’aeroporto che è diventata una baraccopoli abitata in prevalenza da rastafari e coloured raccoglitori di metallo. Mentre Stefano era impegnato in una riunione tra i vari rappresentanti dei riciclatori, io e Sonia abbiamo girovagato, vedendo bambini giocare tra le carcasse arrugginite di automobili e conoscendo Gerald, un rastafari, che si è presentato come dottore-stregone e coltivatore di marijuana.
Casa di legno e lamiera, sul tetto la bandiera rossa, gialla e verde con l’effige di Marcus Garvey, in una stanza un quadro ritraente l’ex imperatore etiope Haile Selassie, pure lui un mito per i rasta, e una montagna di pianticelle, semi e radici con i quali curare qualsiasi malattia. La sua famiglia è composta dalla compagna Maurichell, dalla figlioletta Geraldine e da un cane. Gerald ci ha accolto come se ci conoscessimo da sempre e così è stato per i suoi vicini di baracca.
Cape Town si è rivelata una città affascinante, sicuramente la più attraente del continente nero insieme al Cairo. Vanta una posizione invidiabile, ha il mare e una montagna nel centro, è ancora a misura d’uomo, colorata e ricca di fermenti culturali e musicali. C’è una bella atmosfera, la gente è cordiale e simpatica e ci si può divertire in condizioni di relativa sicurezza. Sicuramente non ci si può scordare del milione e mezzo di persone che vivono nelle baraccoli di Cape Flats, ma nel desolante grigiore delle metropoli africane Cape Town può essere definita un’oasi relativamente felice.
Siamo stati in vetta alla Table Mountains, il picco che supera i mille metri da cui si gode una vista superba (dalla funicolare è mozzafiato) della città, e a Camps Bay
la spiaggia a mezzaluna più famosa, una Copacabana in miniatura, con una sfilza di bar dove sorseggiare un drink al tramonto. All’«Africa Café», nel quartiere centrale di City Bowl, abbiamo gustato una sera le specialità del continente nero, addirittura una quindicina di piatti molto speziati (pesce, pollo e carne di antilope cucinati in mille modi e una miriade di verdure) in un ambiente raffinato e solare, con atmosfera e colori caldi.
Il nostro ristorante preferito era peraltro «Diva» a Observatory, con prelibatezze italiane (due pizze gustose e vino sudafricano 15 euro). Un sabato, nel dopocena, siamo entrati in un pub-discoteca adiacente, dove c’erano esclusivamente neri, e abbiamo fraternizzando bevendo e ballando al ritmo di musica afro-americana. A Cape Town c’è una discreta e crescente integrazione razziale, ma i locali di consueto sono di tendenza bianca o nera.
Naturalmente non potevamo non visitare Robben Island, che è stata la prigione di Mandela per 18 anni ed è diventata un monumento alla lotta per la libertà. Trequarti d’ora di aliscafo da Cape Town, pullman per avere un’idea dell’isola - siamo passati anche dalla cava di calce in cui lavorava chi era condannato ai lavori forzati, tra cui Mandela - e camminata a piedi nella vecchia prigione.
È stata una visita toccante. La nostra guida era Benjamin, un ex detenuto, incarcerato dal 1980 al 1991 per motivi politici. Una domanda mi è venuta spontanea: perché lavorare lì dove aveva sofferto ? Mi ha risposto: «Il passato è passato, questa è un’altra vita, ma io sono qui anche per non dimenticare, per raccontare a chi viene a Robben Island quello che fu». Molte celle (circa 3x2 metri) sono visitabili, sovente c’è la foto e la storia di chi vi è stato incarcerato e talvolta si può sentire la sua voce registrata. Alla cella di Mandela, la numero 5 del blocco B, non si poteva accedere, tra le sbarre si vedevano un tavolino in legno, una tazza in metallo, coperte e un cestino per l’immondizia.
Come escursione domenicale nei dintorni di Cape Town abbiamo optato per il Capo di Buona Speranza (circa 60 km a sud), fermandoci sulla strada a Boulders Beach, vicino Simon’s Town, dove c’è una colonia di pinguini africani. Il Cape of Good Hope è il punto più a sud-ovest dell’Africa, non il più meridionale in assoluto. E’ integrato in una riserva naturale, a sua volta inglobata nel Table Mountain National Park. Ci si può perdere camminando nel verde, si può salire con la funicolare verso il faro, noi ci siamo limitati a osservare dalla riva le onde dell’Oceano Atlantico infrangersi contro le rocce e ad attendere che non ci fosse più nessuno per goderci quel momento.
Rientrando a Cape Town, abbiamo sostato per cenare a Kalk Bay in un ristorantino incastonato tra la stazione ferroviaria e il mare. Il lunedì mattina ho consegnato fiducioso il fuoristrada in officina, dovevo riprenderlo in serata, ma i meccanici si sono accorti che il telaio era rotto posteriormente in tre punti a causa delle violente sollecitazioni subite in 6.700 km di sterrati africani, così hanno dovuto saldarlo e la mia partenza da Cape Town è slittata a martedì. Pompa dell’acqua e ammortizzatori non erano però arrivati da Johannesburg, mi è stato garantito che non avrei corso rischi nel tour di 5.000 chilometri in Sudafrica, praticamente sempre su asfalto, e ci siamo accordati per un secondo round di riparazioni al ritorno, prima di infilare il fuoristrada nel container.
Con Charl, un consulente dell’officina, e Gregory, il caporeparto, si è instaurato un rapporto di amicizia, sapendo del mio giro del mondo si sono prodigati per darmi una mano il più possibile. Finalmente di nuovo libero, ma il tempo utile per il tour si era ridotto a quindici giorni.Marco Sanfilippo
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