Il resto è musica

Forse, quando muore un artista, non dovremmo far tanta panna montata alla lacrima di coccodrillo.

Sappiamo tutti che un bravo scrittore, un poeta, un attore eccellente, un regista visionario e un cantante innovativo possono aver lasciato in noi testimonianza sentimentale a lunga scadenza ma, insomma, non dovremmo prenderla sul personale. Al proposito, ricordo quanto disse John Lennon al Dick Cavett Show (programma i cui brani, postati su YouTube, sono una fonte essenziale per riscoprire i grandi personaggi degli anni Sessanta e Settanta) poco dopo lo scioglimento dei Beatles: «Era solo una rock band».

Chissà, forse ci piace crogiolarci in questi lutti alla lontana, che feriscono la nostalgia ma, in fondo, non diminuiscono concretamente le nostre vite. Detto questo, e sottoscrivendolo, alla notizia della scomparsa di David Bowie temo di avere esaurito la mia scorta di cinismo. Se si può ammettere un’eccezione, occorre farlo per lui. Nel leggere gli articoli che, alla sua scomparsa, lo chiamano «marziano», con riferimento ai primi successi, mi vien da pensare a quanto in realtà fosse terrestre. Tanto terrestre da mettersi sul palcoscenico per dimostrare come non ci fosse da provare vergogna per il fatto di essere terrestri anche noi.

Con le sue ambiguità, le stranezze, le maschere, le sfocature sessuali, il camaleontismo, David Bowie ha rappresentato, riscattandola, quella sensazione di essere fuori posto, in ritardo, periferici e incompresi che tanti di noi hanno provato nell’adolescenza. In lui si rifletteva la luce inaspettata che molti, per paura e conformismo, badavano a non farsi sfuggire. Ha così messo in scena, anche con ironia, i nostri pasticci spirituali dimostrando che, lungi dall’essere fallimento, vergogna o perversione, potevano in realtà tradursi in forza, qualità e perfino meraviglia. Solo per questo dovremmo essergli eternamente grati. Il resto è musica.

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