Vuoi andare in Giappone?
«Salto nel buio
ma siamo felici»

Una settimana di tempo. È quanto Luigi Aresi, 41 anni di Castelli Calepio, si è preso – circa due anni e mezzo fa – per maturare una decisione che gli avrebbe stravolto la vita. Quella sera è tornato a casa da Cristina, la moglie, e le ha detto che se avesse accettato la possibilità di cambiare la sua sede di lavoro per i tre anni successivi, di lì a qualche mese sarebbero partiti. Era il 2015 e già allora Luigi Aresi lavorava in Brembo da una decina d’anni, in Progettazione, all’interno della Business Unit Sistemi (pinze freno per auto e veicoli commerciali). L’azienda gli aveva proposto di trasferirsi in una delle sue sedi all’estero, in qualità di Project Engineering Manager, ossia di «interfaccia tecnica» tra le case costruttrici locali e il quartier generale di Sviluppo a Stezzano.

«Fino ad allora – racconta – avevo viaggiato per l’Europa, missioni di qualche giorno, al più 2-3 settimane in Cina; quella sarebbe stata la mia prima vera esperienza lontano dall’Italia». Sì, ma dove? «Quando ho detto a Cristina che la destinazione era il Giappone, è rimasta scioccata – ammette Luigi –. Un Paese lontano, completamente diverso negli usi e nei costumi, e di cui si conosce ancora poco». Tre anni in Estremo Oriente a dieci ore di volo dall’Italia; Luigi per partire aveva bisogno che anche la sua famiglia lo seguisse. «Sono stato io a convincere mia moglie – dice –. La preoccupazione più grande era soprattutto per le nostre figlie. Elena, la maggiore, avrebbe iniziato là l’ultimo anno di asilo, e Chiara, la piccolina, aveva solo un anno».

Luigi e la sua famiglia hanno lasciato l’Italia nella tarda primavera del 2016, con destinazione Tokio. Con sé il tecnico della Brembo ha portato, oltre alla famiglia, un bagaglio di 30 ore di studio di giapponese. Un po’ pochine per imparare ad arrangiarsi tra le migliaia di ideogrammi della lingua orientale. «E dire che in questi due anni non sono ancora riuscito ad andare a scuola», scherza. Elena, la figlia più grande, a scuola invece ci va eccome, ed è proprio attorno a lei che Luigi e Cristina hanno stretto le loro prime amicizie in terra d’Oriente con famiglie provenienti da mezzo mondo: «Abbiamo conosciuto brasiliani e americani, qualche giapponese e pochissimi italiani. Elena frequenta un istituto internazionale, dove si parla prevalentemente inglese, tanto che adesso, quando la sera le racconto una storia, è lei a correggere i miei errori di pronuncia». Non avrà trovato una scuola, ma se non altro Luigi ha trovato un’insegnante.

Per il giapponese, c’è tempo: «Nei negozi è davvero difficile – spiega Luigi – ci capiamo ancora a gesti, oppure utilizziamo il traduttore di Google. Al lavoro, invece, si parla inglese, anche se i giapponesi fanno molta più fatica con le lingue di quanto immaginassi». Per il resto, è arduo trovare difetti a questo popolo: «Sono tutti gentili, ossequiosi, forse troppo – racconta – nei luoghi pubblici regna ovunque il silenzio e la pulizia. Immaginavo Tokio come una metropoli caotica, invivibile, invece è paradossalmente una città a misura d’uomo, dove si vive benissimo, piena di verde, e dove modernità e tradizione, templi e grattacieli, si fondono in un paesaggio suggestivo e armonico».

Peccato che per Luigi la cucina giapponese sia ancora un tabù (non così per Cristina e le due bimbe). «Loro si sono abituate – dice – io sono forse un po’ troppo schizzinoso. Ma sbaglia chi pensa che in Giappone mangino solo sushi, anziì. Il problema è che qui la frutta costa così tanto, che la comprano, la impacchettano e la regalano». Otto euro per due pesche e 10 per un melone non sono effettivamente a buon mercato. «Per il resto – racconta ancora Luigi – tutto funziona alla perfezione, dai trasporti alla scuola e soprattutto la sanità: ognuno di noi riceve periodicamente degli inviti a presentarsi in ospedale per visite mediche gratuite. Qui ci tengono davvero alla salute e al benessere dei cittadini. Tuttavia – puntualizza – da qualche tempo la popolazione tende un po’ a ingrassare: sia chiaro, sono ancora quasi tutti magri, ma si avverte una certa contaminazione con i fast food americani, che da tempo sono arrivati anche qui».

Ma c’è qualcosa che fa assomigliare, anche solo un po’, i giapponesi ai bergamaschi? «Sono molto diffidenti – spiega Luigi –. È davvero difficile stanare i loro sentimenti. Le donne sono generalmente più sorridenti, ma gli uomini sanno nascondere bene le loro emozioni e prima di darti fiducia, ti mettono alla prova. Nei confronti degli stranieri, poi, sono molto scettici, seppure di noi italiani apprezzano tante cose, soprattutto l’arte e il cibo. Un po’ meno, forse, il nostro comportamento in metropolitana, dove invece ci facciamo ancora riconoscere. Eppure i giapponesi sanno essere anche molto ospitali: ci sono tante famiglie che danno alloggio ai turisti. Invece di andare in albergo, potrebbe essere un’esperienza diversa: basta inviare loro un “curriculum” e una foto. Lo si può fare in Internet, attraverso siti dedicati». Sembrerà strano, ma se c’è qualcosa che proprio i giapponesi non ci invidiano è il mare: «Loro sono ossessionati dal sole – rivela Luigi –. Per ripararsi indossano guanti fino ai gomiti, vanno in giro con gli ombrelli aperti e si spalmano di crema protettiva anche in città, o in auto. Lo fanno per proteggere la pelle da eventuali malattie causate dall’esposizione al sole e senz’altro anche per una questione di retaggio storico e culturale: un tempo ad esporsi ai raggi solari erano coloro che appartenevano alle classi sociali meno abbienti».

Tra un anno esatto il contratto di Luigi in Giappone scadrà. A quel punto il tecnico della Brembo dovrà scegliere ancora: «Dopo un’esperienza qui, ormai siamo pronti a tutto – assicura –. È così positiva che ringrazio davvero l’azienda di avermela offerta. Di tornare in Italia, però, non ce la sentiamo. Non subito, almeno, nonostante della mia terra mi manchi, oltre alla famiglia, la possibilità di passeggiare da solo per la campagna, che qui vedo solo in treno, quando mi capita di viaggiare per lavoro». Cina, Polonia, Messico o Stati Uniti, poco importa: «Ci piacerebbe vivere ancora un po’ all’estero. Se ce ne andremo da qui, ci capiterà senz’altro di fare dei paragoni con il Giappone, ma sarà bello scoprire posti nuovi».

Ma è vero che le strade non hanno nome? «Effettivamente qui i quartieri hanno una specie di codice postale – racconta ancora Luigi –. Anche se a dire la verità non ci abbiamo fatto ancora caso». Non male, dopo due anni tra casa, scuola, lavoro e negozi. Ma come fate? «Ormai abbiamo imparato le strade a memoria e per visitare la città – che in tutto questo tempo, forse, non siamo ancora riusciti a vedere tutta – usiamo Google maps, con cui perdersi è praticamente impossibile».

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