Ricercatrice a Cambridge
Contro il cancro al cervello

Spesso, quando si conquistano traguardi importanti troppo presto, è alto il rischio di «sentirsi arrivati»: da qui può però nascere la volontà di dimostrare che i risultati non sono arrivati per caso, e il coraggio di decidere da soli come continuare il proprio percorso permette di crescere e di trovare davvero la propria strada.

È quello che è capitato a Sara Piccirillo, 35 anni, originaria di Dalmine e dal gennaio 2010 ricercatrice associata presso il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Cambridge, in Gran Bretagna, e membro dello Hughes Hall’s College, uno dei 32 College di Cambridge.

Proprio a Cambridge Sara ha ricevuto un premio come miglior giovane ricercatore nell’ambito della Neuroncologia. Sara, infatti, si è trovata giovanissima al centro dell’attenzione del mondo scientifico per le sue ricerche sul più aggressivo tumore cerebrale degli adulti, il glioblastoma multiforme, ma ha deciso di proseguire nella ricerca e di andarsi a prendere il posto di lavoro che più faceva per lei.

Sara si è trasferita da Milano a Dalmine quando aveva otto anni, e ha poi vissuto sempre nella città bergamasca. Dopo il liceo scientifico «Lussana» ha intrapreso il percorso di studi accademico in Biotecnologie mediche all’Università Statale di Milano, e ha conseguito all’Università di Milano-Bicocca il dottorato in Medicina traslazionale e molecolare.

È durante il primo anno di dottorato che avviene una delle svolte più importanti della sua vita. Sara, che si era sempre occupata di tumori al cervello, stava conducendo una ricerca sul glioblastoma multiforme attraverso l’analisi delle caratteristiche staminali di questo grave tumore. La ricerca, che viene subito apprezzata da alcuni tra gli studiosi più importanti a livello mondiale, viene pubblicata da «Nature», una delle riviste più prestigiose nel campo della ricerca biomedica. «Paradossalmente – commenta Sara – questo grande successo, con tutto il carico di aspettative da mantenere che comportava, poteva rivelarsi un boomerang per me. I posti di lavoro offerti erano tanti, ma accettando molti di questi la mia “crescita scientifica” si sarebbe fermata: potevo fermarmi lì, ma avevo solo 27 anni».

«È nata quindi la voglia di dimostrare che ciò che avevo scoperto non era capitato per caso, per fortuna – racconta Sara Piccirillo –. Ma soprattutto avevo davanti a me il pericolo di perdere il senso profondo per cui faccio questo lavoro, che considero una missione, e volevo a tutti i costi evitarlo».

«Così – continua Sara – decisi di ripartire, in qualche modo, da zero, di ricominciare in un ambiente nuovo, scelto da me, e da lì vedere cosa ne sarebbe nato: credevo infatti, e credo tuttora che, nella ricerca, debba emergere, se c’è, il progresso e i risultati, non la persona che li ha ottenuti. Mi misi a cercare il posto giusto, e lo trovai all’Università di Cambridge: era il luogo ideale per continuare la ricerca di questo tumore da una prospettiva diversa, ossia prestando maggiore attenzione alla dimensione genetica della patologia».

«Qui – prosegue Sara –, attraverso il lavoro in laboratorio e il contatto diretto con le sale operatorie e i pazienti per prelevare direttamente i campioni da studiare, cerco di ricostruire l’origine biologica del tumore, di capire come si è costruito prendendo spunto da come si presenta oggi: anche perché è stato osservato, anche grazie ai risultati che ho ottenuto qui a Cambridge, come la malattia si comporta in modo diverso a seconda dei pazienti, per cui è necessario agire in maniera personalizzata, che tenga conto del caso specifico».

Con Sara, a un certo punto, si finisce a parlare di speranza. «È necessario chiarire – spiega Sara – che il glioblastoma multiforme per ora purtroppo è una malattia senza molta speranza. Si tratta infatti di un tumore che si manifesta quando è già molto avanzato: se tutto va bene, si riesce a intervenire chirurgicamente e con terapie solo per allungare la vita del paziente e migliorarne il più possibile la qualità. Dopo l’intervento, però, il tumore tende a riformarsi, e solo il 25 per cento dei pazienti è ancora vivo due anni dopo l’operazione. Lo dico quindi con grande chiarezza: da questo tumore, in generale, non si guarisce». E dunque? La domanda, già pronta, su quanto manchi per trovare una cura, quella domanda forse un po’ spavalda ma che, se si ha di fronte un ricercatore in ambito medico, appare sempre quella più automatica e piena di speranze da fare, viene bloccata da queste parole. E dunque, dove è la speranza in questo lavoro? «Mantengo – spiega Sara – la speranza che la vita che rimane ai pazienti possa essere migliorata sempre più in tempo e qualità attraverso terapie personalizzate».

«Certo – dice –, siamo molto indietro nella ricerca rispetto ad altre malattie neuro degenerative e rispetto ad altri tumori, perciò quello che abbiamo davanti noi ricercatori è un processo lungo e difficile: quando però scopriremo come nasce questa malattia, ed è esattamente ciò per cui mi sto impegnando qui, quando capiremo come bloccare il processo che all’interno delle cellule la genera, allora potremo iniziare a sviluppare delle nuove terapie e vedere dei risultati importanti. È una sfida, una grande battaglia, ma credo che nel lungo periodo si possano avere importanti risultati». Per adesso Sara si è stabilizzata in Inghilterra, e confida che nel 2009 è bastata una settimana, durante la quale era andata a Cambridge per trovare casa in attesa di trasferirsi, per far capire al suo ragazzo, Manuel Locatelli di Osio Sopra, che non poteva vivere così lontano da lei, perciò Manuel si è subito trasferito oltremanica, e i due si sono presto sposati. «Anche lui – commenta – si è rimesso in gioco». Manuel l’ha seguita anche quando, nel 2014, Sara ha dovuto trasferirsi sei mesi in Texas per continuare il suo lavoro sul glioblastoma.

«All’inizio – commenta Sara – apprezzi le novità del posto nuovo dove sei, poi l’Italia inizia a mancarti. In Italia c’è un maggior senso del bello, dal punto di vista architettonico ma non solo, e c’è maggiore spontaneità. Una cosa che mi manca molto dell’Italia è assistere al cambio delle stagioni: qui è tutto più stabile, mentre in Italia avverti di più il ritmo dettato dal clima che cambia, lo senti proprio dentro».

«Sulle mie prospettive – conclude Sara – c’è un dibattito aperto tra me e mia sorella, anche lei ricercatrice, ma che dopo un’esperienza all’estero è tornata in Italia». «Attualmente sto cercando di diventare indipendente nel campo della ricerca – spiega ancora Sara –, ovvero formare un mio team di ricercatori e impostare una mia linea di ricerca. Ma non so dove finirò a vivere o a lavorare». «Quello che sento adesso è che, siccome come dicevo siamo molto indietro nella ricerca nel mio campo, voglio andare nel posto che mi consenta di fare i migliori progressi possibili per migliorare le condizioni di vita dei pazienti» conclude Sara.

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