Bergamo senza confini
Domenica 21 Settembre 2014
«Partito a 8 anni senza un soldo
In Guatemala sono il re del legno»
di Elena Catalfamo
La colla arriva dalla Svezia, la vernice dalla Germania, il design è italiano, il legno dal Centro America, i clienti dagli Stati Uniti e dal Sudamerica. Quella di Omar del Carro e della sua famiglia, originari del Polaresco in città, ormai è un’azienda globale, con sede a Guatemala City e 240 dipendenti.
di Elena Catalfamo
La colla arriva dalla Svezia, la vernice dalla Germania, il design è italiano, il legno dal Centro America, i clienti dagli Stati Uniti e dal Sudamerica. Quella di Omar del Carro e della sua famiglia, originari del Polaresco in città, ormai è un’azienda globale, con sede a Guatemala City e 240 dipendenti.
I vari rami delle imprese, specializzate in edilizia, costruzioni, mattonelle e parquet, portano dei nomi che rivelano le radici bergamasche: «Corporation Bergamo», «Mos», «Orobica», «Valli», «Natural wood» e «Guagranito». Perché è dalla zona di Mozzo e di Treviolo che Omar e la sua famiglia sono partiti nel lontano 1979 grazie alla forza di non arrendersi del papà Giuseppe e della mamma Marilena Bonalumi.
«Lo scriva pure: quando siamo partiti morivamo di fame - dice nell’intervista via Skype alle sei di buon mattino («ma mi sveglio alle 4 e continuo a lavorare per 12 ore» precisa) -: mio padre aveva un’azienda di mattonelle, ma nei primi anni Settanta c’è stato il boom della ceramica e così è fallito tutto. Avevamo venduto i macchinari ma non fu un buon affare. In poche parole non avevamo niente, ma niente di niente. Io avevo 8 anni e mio fratello Manolo era ancora più piccolo. A un certo punto un amico di mio padre gli propone di andare in Guatemala: nel 1976 c’era stato il terremoto e c’era tutto da ricostruire. Il lavoro non sarebbe mancato. E così nel giugno 1979 siamo partiti: non saremmo tornati in Italia per molto tempo».
Occhi azzurri, color del ghiaccio puro, accento castigliano (ma ogni tanto qualche intercalare in bergamasco scappa sempre), sorridente e sicuro, Omar oggi può guardare al passato con serenità. Ma alcuni momenti sono stati proprio duri. «Il ricordo che ho dei miei primi tempi in Guatemala? - dice - . Ero piccolo: ricordo che in Italia non potevamo permetterci di comprare le banane perché costavano troppo, mentre qui in Sudamerica con un dollaro acquistavi un casco intero di frutta. Appena siamo arrivati facevamo scorpacciate di banane. Per il resto io e mio fratello abbiamo iniziato la scuola e mio papà si dava da fare, faceva di tutto. Io al sabato lo aiutavo con il muletto. Abbiamo lavorato tutti moltissimo, anche perché all’inizio c’era una certa diffidenza verso gli italiani. Pensavano che eravamo tutti mafiosi».
«Credo che il fatto di essere buoni lavoratori ci abbia salvato e anche la capacità di stare insieme, di essere uniti come famiglia. In questo mia madre ha avuto un ruolo importantissimo. Non ci siamo mai arresi» dice Omar, che poi ha conseguito una laurea, si è sposato con Elizabeth, dentista di origine messicana, e ha una bella figlia, Caterina, di 9 anni. «Neppure quando sono stato rapito» butta lì.
A 25 anni infatti Omar è stato vittima di un sequestro di persona a scopo di estorsione. È stato nelle mani dei delinquenti per nove giorni. Non dice molto di più di quell’esperienza. «Essere imprenditore qui non è un vanto - spiega -: cerchi di dare meno nell’occhio possibile altrimenti vieni preso di mira. Il Guatemala è un Paese bellissimo ma il traffico di droga e la criminalità sono molto radicati».
«Quando tutto è finito - racconta Omar a proposito del rapimento - io e la mia famiglia ci siamo trovati tutti intorno a un tavolo. Dopo quasi 20 anni in Guatemala, quando sembrava che finalmente avessimo un po’ ingranato, ci siamo detti: che facciamo? Torniamo indietro? Qui rischiamo la vita. Ma abbiamo scelto di restare».
Omar oggi parla di un’azienda florida in un mercato ancora in espansione in cui la qualità della manodopera e del design italiano è molto apprezzata e sa imporsi su un mercato globale. «La nostra azienda davvero può considerarsi globale - dice parlando di una rete di imprese che cresce con il papà Giuseppe («a 72 anni non ne vuole sapere di stare fermo») e il fratello Manolo -: le vernici migliori le troviamo in Germania, le colle in Svezia, il legno dal Canada, Centro e Sud America, e il 92% dei nostri clienti sono negli Stati Uniti. Ci aiuta la posizione strategica al centro dell’America, la conoscenza della realtà produttiva europea e la velocità» dice.
«Non diciamo mai di no - rivela - e cerchiamo di essere sempre veloci e disponibili. Questo ci aiuta molto soprattutto con la clientela americana che vuole tutto e subito». In questo momento, solo per citare qualche esempio, Omar sta ultimando il salone espositivo nella capitale per Mercedes Benz e Chrysler, e ha appena ultimato il Marriott Hotel di New York. «In questo momento siamo molto richiesti - continua - perché utilizziamo le piante di gomma ormai non più produttive per fare un parquet che ha delle particolari venature».
«Non bisogna mai fermarsi - continua - e aggiornare sempre i prodotti. Sento la responsabilità di avere sulle spalle le famiglie dei miei dipendenti. Certo non so se in Italia sarei riuscito a fare tutto questo: qui abbiamo incentivi per l’export, puoi aprire un’impresa in due mesi e negli Usa in due giorni, sei a contatto con il mondo, e c’è voglia di fare».
«Il lato negativo? - dice - Qui purtroppo siamo una zona di passaggio di droga. Io sto ottenendo una certificazione americana con cui assicuro che le mie merci imballate sono a prova di regole antiterrorismo e narcotici. L’Intelligence americana ha messo delle telecamere nel nostro magazzino in modo da monitorare le merci che esportiamo. I miei dipendenti sono tutti con badge. Io assicuro che le mie merci sono sicure e loro accelerano i passaggi nelle dogane».
«Bergamo? Mi manca il sapore del taleggio, le nostre valli a cui abbiamo dedicato il nome di un’azienda. I miei genitori hanno un legame più forte, vi tornano una volta all’anno. Sono felice: oggi vedo mio padre contento e orgoglioso di quello che abbiamo fatto insieme qui. Questa è la gioia più grande».
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