Bergamo senza confini / Bergamo Città
Domenica 29 Novembre 2015
Io, ingegnere di Valverde
tra i magneti del Fermilab
«Mi ritengo un ragazzo molto fortunato. Al contrario della maggior parte dei miei coetanei non ho dovuto sperimentare la fatica di cercare a lungo un posto di lavoro». È così che inizia il suo racconto Carlo Santini, classe 1988, nativo di Bergamo, precisamente del quartiere di Valverde.
Subito dopo la laurea in Ingegneria nucleare, conseguita con il massimo dei voti al Politecnico di Milano, nel dicembre del 2014 ha ottenuto, infatti, un contratto di lavoro di due anni nel centro di ricerca Fermilab di Chicago, noto anche come Fnal acronimo di Fermi national accelerator laboratory, dove nel 2011 è stata scoperta la nuova particella elementare, il cosiddetto bosone Z. «Già da piccolo – racconta – ero affascinato, e lo sono tuttora, da tutto quel che concerne l’universo e le particelle che lo compongono. Ho frequentato il liceo scientifico Mascheroni con la consapevolezza di quale sarebbe stato, poi, il mio percorso di studi: laurea triennale in Fisica e quella magistrale in Ingegneria nucleare».
Durante la stesura della tesi collabora direttamente con il Cern di Ginevra per il progetto Hilumi Lhc, per il potenziamento dell’acceleratore di particelle elvetico. A novembre, invece, partecipa al meeting annuale dello stesso progetto a Tzukuba, in Giappone, dove, in maniera del tutto casuale, conosce due scienziati del Fermilab che stanno proprio ricercando giovani ingegneri. Dopo i colloqui via Skype, viene, così, assunto con la posizione di Guest Engineer. Inizia da lì il suo sogno americano, anche se, per la verità, non era mai stato il suo. Ha una sola certezza: quella che gli si sta presentando davanti agli occhi è un’opportunità da non lasciarsi sfuggire.
Nei mesi precedenti alla partenza Carlo deve occuparsi delle incombenze burocratiche: i visti, i documenti, i colloqui all’ambasciata italiana che gli impediscono di pensare troppo ai cambiamenti che di lì a poco sarebbero avvenuti nella sua vita. Man mano si avvicina il giorno stabilito per il volo, però, l’ansia cresce e con essa anche i dubbi, le incertezze, gli interrogativi di essere all’altezza e di riuscire a sopportare la nostalgia della sua rassicurante quotidianità. Anche la conoscenza della lingua inglese, pur se buona, rappresentava per lui motivo di apprensione. «Certo staccarmi da Bergamo, dalle mie radici più profonde – confessa – non è stato facile e la settimana precedente alla partenza, mentre cominciavo a salutare parenti e amici, ho iniziato a rendermi conto di cosa volesse dire allontanarsi dalle persone a cui si vuol bene. Mi preoccupava il pensiero di essere distante migliaia di chilometri da coloro su cui avevo sempre fatto affidamento».
«Le prime due settimane a Batavia, la cittadina dello Stato dell’Illinois dove ha sede il laboratorio e che dista circa quaranta miglia da Chicago, mentre aspettavo di iniziare il mio nuovo incarico, le ho vissute sentendomi un po’ come un eremita: solo, spaesato, concentrato a trovare una casa, l’auto, aprire il conto in banca, la social security card, le assicurazioni. Tutte quelle incombenze burocratiche e no, che in America sono obbligatorie».
I primi giorni di lavoro Carlo impara a conoscere e a muoversi nel grande centro di ricerca creato nel 1968 sotto la giurisdizione del Dipartimento dell’Energia degli Usa e che prende il nome dal celebre fisico italiano Enrico Fermi. Lavora nella Tecnical Division del dipartimento Magnet Design e, nello specifico, si occupa di magneti super-conduttori. Nel centro, appunto, si costruiscono i magneti che poi vengono spediti al Cern, con il quale collabora per il progetto che lo riguarda, per far scontrare le particelle nel tunnel. Racconta che le sue giornate di lavoro sono molto intense e impegnative, ma l’ambiente è molto stimolante; ogni giorno viene sollecitato a imparare cose nuove e a metterle in pratica. «Sono contento di quello che sto facendo, sto realizzando un sogno; le ore trascorse in laboratorio si snocciolano veloci e posso dire che, nonostante mi trovi qui da pochi mesi, sono già ben integrato nel gruppo dei colleghi con cui trascorro i weekend visitando, di volta in volta, città e dintorni americani».
«Il salto nel buio che mi aveva intimorito non è stato poi così drammatico, sono atterrato su morbidi cuscini – racconta –. Mi mancano i miei cari ma, per fortuna, esiste Skype! Il mio vuol essere uno stimolo per chi è in procinto di partire o, viceversa, per chi non vuol partire per paura di lasciare le proprie certezze». Carlo, per essere un ingegnere, e per di più nucleare, sfata il mito del pragmatismo scientifico, perché sostiene che la cosa che più lo ha colpito dell’America, di quella parte d’America dove si è trasferito, sono le nuvole. Dice: «Qui le nuvole sono fantastiche. Sarà perché non c’è una montagna neanche a pagarla oro e quindi hanno un sacco di spazio per palesarsi. Sono proprio belle!».
Una visione a cui egli aggiunge anche le sue impressioni positive sul paesaggio così verde che lo circonda. Nei prati circostanti, anche in quelli davanti alle case, è facile, infatti, vedere scoiattoli, chipmonk, topolini, puzzole e coyote. Alla richiesta se ha un aneddoto da raccontare egli descrive quanto gli è successo la sera stessa del suo arrivo che gli ha permesso di sentirsi, da subito, in un ambiente favorevole e accogliente. «All’aeroporto ritiro l’auto per raggiungere il residence ma, nonostante le informazioni dettagliate scaricate da Internet, non riesco a trovare la giusta direzione. La strada indicata non esiste più, al suo posto c’è un ponte ma non è ancora praticabile. La stanchezza si mescola al timore di essermi perso. Chiedo aiuto a una coppia con un bambino che sta uscendo da un edificio, la cui struttura ricorda quella dei nostri oratori. Subito si offrono di farmi da navigatore. Il percorso è abbastanza lungo: li seguo per più di mezz’ora finché, finalmente, giungiamo all’albergo dove mi salutano con calore e simpatia, per nulla infastiditi da quel fuori programma. Viene spontaneo scambiarci un abbraccio e i numeri di telefono. Loro sono stati il mio primo contatto americano, un buon contatto» conclude.
Essere più vicini ai bergamaschi che vivono all’estero e raccogliere le loro esperienze in giro per il mondo: è per questo che è nato il progetto «Bergamo senza confini» promosso da «L’Eco di Bergamo» in collaborazione con la Fondazione della Comunità Bergamasca. Per chi lo desidera è possibile ricevere gratuitamente per tre mesi l’edizione digitale del giornale e raccontare la propria storia. Per aderire scrivete a: [email protected]
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