Bergamo senza confini
Domenica 18 Aprile 2021
In Canada da 60 anni
«Arrivati in 4, ora siamo in 19»
Gino e Anna Salvi, da Albino a Windsor (Ontario). Partiti prima per la Svizzera e poi per la Francia. L’arrivo oltreoceano nel 1964: una vita insieme. Due, tre squilli, poi il pulsante rosso di Skype si fa verde e il sorriso affabile di Gino riempie tutto lo schermo. Qualche secondo e anche Anna fa capolino, ciarliera più del marito, il quale intanto sistema l’inquadratura del tablet e verifica l’audio: già, perché si può essere tecno anche a quasi 90 anni, «e se poi ti serve ancora qualcosa ci sentiamo su Messenger».
Da Windsor, Ontario, Gino e Anna Salvi hanno una bellissima storia da raccontare, imponente come i monti della loro Val Seriana. Una storia avviata appena finita la Seconda guerra mondiale: abitavano ad Albino, Gino nelle case degli Honegger, vicino alla Chiesa del Pianto (ed erano i tempi in cui quell’industria rappresentava l’eccellenza del tessile, con i suoi mille telai che davano lavoro a tutto il paese), Anna in una via più centrale. «Nel ‘51 – racconta Gino – quando io avevo 19 anni e lei 17, ed eravamo già fidanzati, raggiunsi mio padre in Svizzera, dove lui aveva trovato lavoro ed era uscito un posto anche per me. Io, peraltro, avevo imparato un mestiere già appena finite le elementari: facevo argentature, ho cominciato a usare le mani e mi riusciva anche bene».
Sono passati settant’anni, ma le menti vispe di Gino e Anna non hanno smarrito un solo dettaglio del passato, anzi i due sgomitano nell’aggiungere particolari e memorie. «In Svizzera, dove mi sono specializzato come fresatore, è iniziata la nostra carriera di emigranti, perché Anna mi ha raggiunto qualche tempo dopo: siamo tornati in Italia giusto nel ‘56 per sposarci, poi dopo qualche mese siamo ripartiti». In quel periodo gli operai qualificati erano molto ricercati, soprattutto se bravi. E Gino bravo lo era davvero, tanto che le offerte di lavoro non gli mancavano mai: «Mi proposero un posto in Francia, vicino a Parigi, accettammo e iniziammo un’altra esperienza, tutta nuova anche per il discorso della lingua: noi, di Albino, in Svizzera avevamo imparato il tedesco, qua si trattava di scoprire il francese. Ma in fondo nel bergamasco c’è dentro un po’ di tutto, se parli quello ti fai capire ovunque».
In Francia Gino trafficò prima sui motori delle navi, poi su quelli degli aerei, con quelle mani d’oro che, tra l’altro, gli fruttarono anche una discreta carriera sportiva. «Facevo il portiere nella Terza divisione francese e capitava di fare le amichevoli contro le squadre di serie A, in cui giocava gente come Piantoni e Kopa: campioni che in quel periodo vinsero tutto e parteciparono anche ai Mondiali».
Uno che oppone i guantoni alle stelle del calcio internazionale non si fa certo intimidire dai tiri a effetto della vita, anzi si esalta di fronte alle nuove sfide: «Avremmo potuto trasferirci in Madagascar, dove la richiesta di professionisti era forte, ma avevamo due bambine piccole (Manuela e Manola, ndr) e preferimmo rinunciare. Poi, nel ’64, ci dissero che in Canada si stavano aprendo nuove opportunità e così ci recammo all’ambasciata di Parigi, dove ci chiesero subito: “Quando volete partire?”. Dovemmo spiegargli che nemmeno sapevamo dove fosse, il Canada».
Si trattava, insomma, di imbastire l’ennesima avventura: «Alla fine ci siamo convinti, perché le prospettive erano vantaggiose. Partimmo dal porto di Le Havre con due figlie e due valigie, sulla nave Carmania che in sette giorni ci portò a Québec: “Welcome”, ci dissero sorridendo i responsabili dell’immigrazione, portandoci poi a scegliere la casa che ci piaceva di più. Un’accoglienza impensabile in Europa, dove si faceva fatica ad avere un tetto fisso sopra la testa».
Il giorno dopo Gino era già al lavoro («Mi sono presentato vestito a festa pensando di dover fare solo il colloquio: mi hanno dato una tuta e messo subito sotto»), nella zona di Montreal dove si parla il francese e dunque l’impatto risultò agevole. Poi l’istinto e le offerte di lavoro sempre migliorative spinsero la famiglia verso l’Ontario, a Windsor, 200.000 abitanti stanziati sulla frontiera con gli Stati Uniti («E qui abbiamo imparato anche l’inglese»), dove nel 1969 - quando è arrivata anche Serena, la terza figlia - Gino ha iniziato a lavorare nel settore dell’automotive. «Windsor è la capitale dell’automobile in Canada, con stabilimenti Chrysler, Ford e General Motors. Io però ero operativo su un altro genere di macchinari e poiché li esportavamo dappertutto ho praticamente girato il mondo per portare il nostro know-how: sono stato in Sudamerica, nei Caraibi, ho trascorso più tempo in aria che per terra. E ne sono felice, perché questo mi ha permesso di tenere la mente vigile e l’animo aperto: io, partito dalla Valle Seriana con la quinta elementare, la mia università l’ho fatta viaggiando per il mondo. E con mia moglie ho attraversato tutti gli States in motorhome, dall’oceano Atlantico al Pacifico, dall’Alaska a Miami. Non penso di aver fatto nulla di straordinario, però di una cosa sono fiero: della mia famiglia».
Anna sorride e annuisce: «Le nostre tre figlie si sono sposate, sono arrivati nipoti e pronipoti e siamo ancora tutti vicini, uniti. Siamo abituati a darci la mano, a dire la preghiera prima di mangiare: e cerchiamo di parlare in italiano, a volte anche il bergamasco».
Perché le radici affondano ancora con forza nelle terre d’Orobia. «La nostra televisione è sempre accesa sui canali italiani, poi ci sono internet e i giornali on line. C’è l’Atalanta, che fa furore e di cui – dice Gino – non mi perdo una partita. Purtroppo ci sono sempre meno amici con cui rimanere in contatto e si può immaginare con quanta angoscia abbiamo vissuto a distanza il dramma del Covid e i suoi effetti devastanti sulla nostra terra». A proposito: a fine marzo Gino e Anna si sono vaccinati, potendo godere della grande organizzazione canadese: «Prima dose di Pfizer: convocati alle 9, dopo un quarto d’ora avevamo già finito. Qua tutti hanno preso le cose seriamente e pensano più a darsi da fare che ad andare in tv».
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