Delia da Nese di Alzano a New York
«Mi sono fatta cancellare da Wikipedia»

Partita da Nese di Alzano, Delia Baldassarri, è diventata negli Usa una sociologa pluripremiata di fama mondiale. «Qualcuno – credo si trattasse di un mio alunno – aveva aperto una voce su Wikipedia dedicata a me: fortunatamente sono riuscita a farla chiudere. Non amo la presenza mediatica e cerco di rifuggire l’apparire: se proprio devo comunicare qualcosa, provo a farlo in prima persona; ad esempio, di recente ho scritto un articolo di fondo per il “New York Times”. Per il resto, preferisco che i miei lavori siano letti all’interno del circuito in cui opero, senza farmi pubblicità.A dirla tutta, già fatico a rispondere alle chiamate che mi arrivano da giornalisti interessati ad approfondire il tema della “polarizzazione politica negli Stati Uniti”: si imbattono nelle mie pubblicazioni accademiche quando cercano informazioni a riguardo su Google».

Delia Baldassarri non ama raccontare di sé: vuole che a parlare siano i suoi studi scientifici. Classe 1978, originaria di Alzano Lombardo – anzi, Nese, come specifica con orgoglio – dal 2016 è professore ordinario del dipartimento di Sociologia della NYU (New York University): uno degli atenei più famosi e prestigiosi del pianeta. Al pari di Princeton - nel vicino stato del New Jersey - dove aveva trascorso il lustro precedente, prima come ricercatrice, in seguito come docente associato. O la Columbia, che nel 2007 le conferì un dottorato in Sociologia (titolo conseguito, contemporaneamente, presso l’università di Trento, dove si era laureata nel 2002).

Un curriculum stupefacente e una carriera che in Patria sarebbe stata un’utopia, sebbene ci tenga a sottolineare che «in Italia non vigono soltanto principi clientelari: negli atenei, la meritocrazia è più praticata di quanto si possa credere». Apprezzamenti che conferma anche con i fatti: da sei mesi è di stanza a Milano (in attesa di tornare nella Grande Mela a settembre) per condurre una ricerca in Bocconi sulle «Relazioni interetniche nelle comunità contemporanee», usufruendo di un fondo finanziato dall’Unione europea. Un viaggio di ritorno che non ha fatto da sola: insieme a lei c’è la piccola Martina, di 3 anni e mezzo. «Da mamma, mi rendo conto di quanto siano marcate le differenze tra americani e italiani nell’educazioni dei figli. A New York è normale che i bambini inizino l’asilo a un anno e ci rimangano dalle 8 alle 18. Si punta a creare individui indipendenti e non esistono giochi da maschi o da femmine. Tant’è che Martina predilige le costruzioni alle bambole: non mi capacito di come, qui, la gente se ne stupisca».

La temporanea parentesi tricolore consente a Delia di stare più vicino al compagno e collega, Maurizio Catino, docente di Sociologia delle organizzazioni in Bicocca, conosciuto durante una conferenza a Bologna, nel 2010. «Da quando è nata la nostra bambina facciamo la spola tra il Vecchio e il Nuovo Continente. È forse in virtù di questo continuo andirivieni che non ho mai ritenuto necessario ottenere la cittadinanza americana, seppur ne abbia i requisiti. Con Obama non era una cosa fondamentale: ma ora, con l’era Trump, è il caso che la richieda. La sua elezione ha colto di sorpresa tutti noi sociologi: impossibile prevederla. Alcune uscite – dagli insulti agli ispanici alle frasi misogine, fino al rifiuto di presentare la dichiarazione dei redditi – avrebbero bruciato ogni chance a qualsiasi altro candidato. Eppure le minoranze lo hanno votato, così come l’elettorato bianco e di sesso maschile, che si sentiva minacciato dal punto di vista economico: una categoria che fino a due anni prima supportava i democratici. Non ho mai conosciuto membri della famiglia Trump, tuttavia suo genero Jared Kushner - il marito di Ivanka - è proprietario dell’edificio che ospita il mio dipartimento: qualche volta ho incrociato il fratello in ascensore».

Del resto, certi incontri sono ordinari a Manhattan. «La mia dirimpettaia è la famosa scrittrice Zadie Smith. E nel parco sotto casa, Washington square park, è facile imbattersi in Alec Baldwin. È una delle mete predilette della nostra famiglia; tra un’aiuola e l’altra è un fiorire di artisti di strada e quartetti jazz: c’è addirittura un pianista che suona dal vivo. Passeggiare per New York è un piacere: persino per una che non conduce un’esistenza alla “Sex & the city”, bensì una routine noiosa, tutta casa-lavoro-figlia. Senza contare che per chi fa il mio mestiere è molto stimolante abitare in una nazione tanto all’avanguardia sul fronte delle scienze sociali».

Eppure, all’inizio è stata dura. «Quando arrivai alla Columbia, nel 2004, non parlavo inglese: fu traumatico. Fortunatamente all’epoca mi occupavo di modelli matematici. Ma la società americana per certi versi è unica: i colleghi fecero il possibile per agevolare la mia integrazione e, dopo un anno di smarrimento, cominciai a ingranare con la lingua. Ultimato il dottorato, ricevetti subito una proposta professionale allettante: non potevo rifiutarla. Negli States l’insegnamento è dinamico, appagante, non tieni mai lo stesso corso: sono stata docente di sociologia, metodologia e network sociali. Confesso che – nonostante studi i “social” per mestiere – li uso poco: sarà che passo la giornata davanti al computer, quindi preferisco interagire con le persone faccia a faccia. Vuoi mettere chiacchierare con mia figlia o uscire a mangiare una pizza con una amica?».

Piccoli assaggi di normalità non sempre conciliabili con la quotidianità di chi dedica gran parte della vita alla ricerca. Sforzi che negli ultimi anni sono stati riconosciuti all’unanimità dalla comunità scientifica. «Vado particolarmente orgogliosa del Freeman Award per i miei studi nell’ambito dei social network, così come del Raymond Boudon Award conferitomi dall’Accademia Europea di Sociologia, e dell’Hans L. Zetterberg’s prize, che ho ritirato da poco in Svezia. Gli amici mi prendono in giro: dicono che tutti questi premi significano che ormai mi sto avviando sul viale del tramonto. Ma la verità è che non vedo l’ora che sia settembre, per tornare a New York: ho pianificato di mandare i miei alunni a far indagini sul campo per analizzare la discriminazione razziale e di genere; no, non voglio che stiano rinchiusi in classe a sfogliare libroni. Non c’è niente di più stimolante che avere a che fare con giovani menti brillanti: la curiosità è il motore di tutto».

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